sabato 30 giugno 2007

-25 bis- SCOPRIAMO CHE SANTA MAMA ERA UN UOMO

(da Camaldoli a Subbiano, 32 km percorsi oggi, in totale 447 km, ore camminate 96, media generale 4,6 km all’ora, paesi attraversati Poppi, Partina, Soci, Pianacci, Bibbiena, Pollino, Corsalone, Castelfocognano, Rassina, Santa Mama, Calbenzano, Spedaletto)

Gli avvenimenti e i problemi della giornata: primo) bisogna recuperare i nostri documenti abbandonati a Campigna e temporaneamente dirottati su Stia, secondo) il fornaio di Camaldoli va a sbattere senza alcun motivo contro un palo a qualche decina di metri da noi, strage evitata per un soffio, terzo) come arginare Alessandro che ha cominciato a parlare ieri verso le cinque e non ha ancora smesso. L’attività principale della prima mattinata, subito dopo la colazione, è quella cartografica. Vengono sguainate tutte le cartine che abbiamo ancora (molte sono quelle abbandonate lungo il percorso nell’inutile e continuo tentativo di alleggerire gli zaini). Le stendiamo tutte sui tavolini all’aperto dell’hotel Camaldoli e con l’aiuto di Maurizio, il gestore dell’albergo e primo toscanaccio nel quale ci siamo imbattuti, approntiamo i piani di battaglia. Un estraneo che passasse in questo momento vicino a noi avrebbe l’impressione di spiare la riunione dello Stato Maggiore prima della battaglia definitiva. L’entusiasmo è quello delle truppe di Nelson alla vigilia della battaglia di Trafalgar. Io, preso da una ventata di pericolosissimo ottimismo, sostengo che saremo a Cura di Vetralla il 7 luglio progettando tappe da trenta km e qualche volta anche 35. Giorgio mi guarda con la stessa condiscendenza con la quale lo psichiatra visita per la prima volta un cliente che sostiene di essere Napoleone, mi dice: “Sì, sì caro. Va tutto bene non preoccuparti”, chiude le carte e si avvia.
La truppa ha perso Carlo, Carla e Marco. Ma arriva, a bordo di uno scooterone, Massimo proveniente da Forte dei Marmi. Molla lo scooterone nel parcheggio e parte con noi. E’ proprio in questo momento che un furgone da fornaio ci supera, fa ancora dieci metri, comincia a zizagare sulla strada, punta con decisione un palo piantato sul muretto al bordo della strada e si schianta. Il conducente esce incolume ma un po’ stranito e spiega che si è distratto nel tentativo di prendere una matita nel portaoggetti. Se la splendida idea gli fosse venuta cinque secondi prima non saremmo qui a raccontarvi queste cose. “La lunga marcetta” Masetti-Cura sarebbe diventata “la marcetta funebre” Masetti-Camaldoli.
La strada, anche oggi, è in discesa, ma discende dolcemente nel paesaggio romantico delle colline toscane. Fine degli abeti bianchi, dei faggi, dei castagni e inizio dei tassi, delle acacie e dei primi timidi cipressi. Prendiamo contatto con un piccolo fiumiciattolo di nome Arno. Grazie a lui, tanto tempo fa, i tronchi della foresta casentinese venivano trasportati prima a Firenza e poi a Pisa per contribuire alla costruzione delle navi della Repubblica Marinara. Un viaggio ancora più lento del nostro. Ci mettevano tre settimane.
Non è solo il paesaggio che cambia. I cambiamenti sono radicali anche per il dialetto e per la gastronomia. Nuove parole, nuovi accenti nel giro di un paio di km, senza sfumature. Non sentiamo ancora “bischero” perché, scopriamo, l’area del bischero è più in là, ad Arezzo. Dobbiamo aspettare domani, quindi, per sentirci dare ufficialmente dei bischeri. E poi il cibo. Da un momento all’altro sono scomparse dai nostri pasti le piadine, come non fossero mai esistite. La riflessione sembra stupida ma noi decidiamo che non lo è. Anzi è una profonda considerazione di carattere socio-culturale. Che senso ha che tutti, al di là della Calla, mangino piadine e che al di qua della Calla, nessuno? Parte il dibattito e qualche istante prima che Giorgio spari “Anche questa è Italia”, Paolo apre il capitolo spriz. La sua prolusione dura sui quindici minuti. Nessuno capisce una mazza di quello che vorrebbe sostenere e allora dirottiamo il discorso sulla salsa rubra e sul ketchup e sugli americani che ci fregano sempre le idee e poi le battezzano come piace a loro. La Statale 71 umbrocasentinese ci porta, sotto un caldo che sembra tornato quello dei bei tempi dell’Emilia-Romagna, a Soci, dove scopriamo una sorprendente comunità indiana e una piazza pronta per quella che ci appare come la più piccola festa dell’Unità del mondo. Ci rendiamo anche conto che abbiamo fatto ormai più di 400 km e ci siamo imbattuti in due sole feste dell’Unità. Vorrà dire qualcosa? Dopo Soci, Bibbiena. Vinciamo con estrema facilità la tentazione di arrampicarci sulle strade che portano al centro storico e, quasi fosse un appuntamento del destino, passando davanti alla stazione, ci vengono incontro le padovane. Le padovane sono un gruppo indistinto di ragazze frequentatrici di Caterpillar e Catersport, coordinate da Daniela. A volte se ne incontrano due, a volte cinque. Le puoi incrociare alla festa di Capodanno di Catersport, oppure a Senigallia per il Caterraduno. Oppure anche alla stazione di Bibbiena dove arrivano dopo un viaggio di quattro ore avendo preso solo un generico appuntamento molto confuso con Giorgio. Quando, davanti alla stazione, le vediamo scendere dal treno io e Giorgio ci guardiamo. “La casualità della linea retta!”
Il gruppo delle padovane, questa volta, è composto da Daniela, trentacinquenne in cerca della sua strada nel settore internettiano, e Elena, ventottenne farmacista comunale. Scopriamo subito che si tratta di padovane false. Elena è di Vigodarzere, e Daniela è di Tencarola. Ma siccome ignoriamo praticamente tutto del padovano, la cosa non ci turba.
Da Bibbiena in poi comincia il solito dramma del pranzo. Quando arriviamo a Pollino e decidiamo che non si può più andare avanti senza addentare qualcosa presa dal magico zaino di Paolo, avvistiamo un bar con portico. Ecco, stavolta abbiamo avuto fortuna. Giorgio avvisa trionfante: “Non è chiuso per turno settimanale”. Paolo precisa: “E’ chiuso per ferie estive”. I bar e i ristoranti chiusi, in realtà, sono diventati una consuetudine quasi piacevole da quando Paolo ci ha abituati alla sua cucina. In fondo troviamo i tavolini tutti liberi per noi. Paolo apparecchia, distribuisce le vivande stando molto attento ai particolari e anche ai gusti personali di ognuno. Sa che a me piace la birra fredda. E voilà, birra fredda per me. Come faccia ad avere la birra fredda anche oltre i 30 gradi all’ombra resta un mistero che non vuole rivelare. Sa che a Giorgio piace il formaggio e lui ne porta vari tipi, per non scontentarlo. Ogni tanto scatta la domanda in apparenza affettuosa ma in realtà subdola e interessata: “Paolo quando parti?” La nostra speranza è che non parta mai più. Ma i suoi piedi ormai ridotti – secondo i suoi racconti – a luganeghe non stagionate non depongono a favore della sua permanenza. Noi preghiamo per lui San Podologo, il protettore dei piedi e delle unghie. Domani è un altro giorno. Ci penseremo domani.
A Pollino ci lascia Alessandro Ceratti il logorroico. In realtà non ha camminato molto con noi. Ieri dall’Eremo a Camaldoli, oggi da Camaldoli a Soci, quindici km in tutto. Da Soci ha preso una corriera per tornare a Camaldoli, ha perso una coincidenza ma alla fine ce l’ha fatta. Da Camaldoli è andato a Stia a prendere i nostri documenti, poi ci ha raggiunto a Pollino da lì ha accompagnato Massimo a Bibbiena. Eppoi è partito per le Cinque Terre. Più che un marciatore è sembrato un pony express. La sua partenza abbassa decisamente il livello acustico della truppa ma perdiamo un socio gentile e disponibile.
Il “pranzo” nel bar chiuso per ferie di Pollino rappresenta un momento importante di tutta la nostra avventura. Uno snodo emotivo. Ci rendiamo conto di essere in tanti. Sembra una riunione conviviale di famiglia, con un lessico ormai nostro, con le nostre fisime, le nostre polemiche, i nostri silenzi. Franco se ne sta come al solito sulle sue ma tra una tanica di birra e l’altra racconta delle scarpe che gli fanno male, risponde educatamente anche a chi gli chiede perché ha tre grosse rughe sulla pelata, ci spiega l’intricata situazione politica di Vetralla, sta al gioco delle nostre battute a volte anche pesanti sulla sua mole veramente notevole (120 chili, 45 di piede, xxxxl di taglia. Massimo, scoperto il fatto che non sa come tornare a prendere lo scooterone a Camaldoli, comincia ad imprecare. “Ho sbagliato la logistica”, dice. “Debbo tornare indietro”. Paolo gestisce il catering in silenzio. Si infiamma solo durante la crociata sulla purezza dello spriz. Alessandro tocca il livello più basso del tacchinaggio internazionale chiedendo a Daniela: “Ma non ci siamo già visti da qualche parte?” Daniela racconta del suo progetto di andare a fare il Camino di Santiago di Compostela. Giorgio polemizza. “Ma allora ci stai usando come trainer!” Elena respinge le nostre pressanti richieste di informazioni sulle cure migliori ai nostri mali. A qualsiasi racconto anche il più drammatico sui nostri malanni, dalla ritenzione idrica alle vesciche, ai dolori muscolari, invece che darci consigli risponde: “Mi dispiace”. Ma non si tira indietro quando la conversazione slitta prevedibilmente sul Viagra, sui preservativi e – punto culminante dell’interesse farmaceutico degli italiani, sulle supposte. Dice Elena: “Molte medicine sono in pasticche e in supposte”. “E tu cosa consigli?”, chiede lo spudorato Giorgio credendo di metterla in imbarazzo. “Se il cliente mi è simpatico gli dò le pasticche, se è antipatico gli dò le supposte”, spiega Elena prima di lanciarsi nella descrizione di un improbabile sparasupposte che consiglia a tutti. Giorgio scopre che accanto al bar chiuso c’è un parrucchiere aperto e comincia ad infastidire tutte le belle signore che escono commentando pesantemente le loro acconciature da matrimonio di serie B. Io accuso la fatica e me ne sto un po’ in disparte massaggiandomi il polpaccio destro dolorante. E’ chiaramente un tendine infiammato e il riferimento mitologico ad Achille che gli altri tirano fuori per consolarmi non lenisce il fastidio. Soprattutto sono preoccupato del fatto che abbiamo prenotato l’albergo Gravenna, vicino a Subbiano. Mancano 15 km.
Ripartiamo dopo che Paolo ha sparecchiato. Incontriamo uno strano paese, Santa Mama. Nome singolare, Giorgio sostiene che è una santa giamaicana, patrona della canna e dell’amore libero. Io punto di più su una scorretta santificazione del ruolo materno. Niente di tutto questo. Poco dopo un allevamento di struzzi (tre struzzi piuttosto spelacchiati e stanchi di essere costretti a vivere ai bordi della statale 71 umbrocasentinese) incontriamo una simpatica signora che ci racconta i fasti dell’Arno, quando l’Arno era l’Arno e non un rigagnolo come adesso. “Si andava all’Arno”, racconta, “di nascosto dei genitori”. Giorgio che quando non è stanco, quando non ha le vesciche, quando non ha la febbre, è spiritoso, le chiede. “Ma lei li sciacquava i panni?” La signora sorride e ci saluta dicendoci: “Vi ringrazio di esistere ancora”. Appesantiti anche da questa responsabilità entriamo un po’ solennemente in Santa Mama. E’ tardi ma io sono veramente stanco e gli altri non si oppongono. Vorrà dire qualcosa? La sosta viene premiata. Primo, faccio un pediluvio freddo che mi rimette in carreggiata. Secondo, otteniamo la spiegazione delle origini del nome Santa Mama. Viene da san Mamante, che per essere una santa era un po’ uomo. Il protettore dei transgender? Terzo, birra, fanta e albicocche per tutti. Quarto, Giorgio scopre tutto felice che nel bar sono sintonizzati su Radio2. Chiede baldanzoso: “Ma allora ascoltate Catersport la domenica”. “No, la domenica siamo chiusi”. Quinto, una sommaria ricerca sociologica sul campo, basata soprattutto sull’ascolto delle conversazioni dei paesani, ci fa scoprire che a Santa Mama sono quasi tutti rumeni. Soddisfatti di questo grande esempio di integrazione che abbiamo individuato, stiamo quasi per andarcene quando una vecchina ci precisa: “I rumeni? Quando li incontriamo ci voltiamo dall’altra parte”.
Arriviamo all’albergo alle otto e mezza. Abbiamo fatto 32 km. Un’esagerazione. L’ultima volta che abbiamo superato i trenta km Giorgio ha avuto la febbre. La penultima volta che li abbiamo superati, la febbre l’ho avuta io. Ma ormai siamo degli ometti. Niente febbre. Ma io me ne vado a dormire subito. Dopo avere fatto infiniti pediluvi freddi e massaggi con creme apposite al mio dolorante tendine. Anche Paolo e Franco si ritirano presto: vanno a leccarsi, metaforicamente, i loro piedi bollenti. Giorgio invece, insieme ad Elena e a Daniela, violenta la notte di Subbiano, facendo le tre per inviare video e foto alla nostro team mediatico, Alessandro Girardi a Trento e Barbara Melotti a Roma. Siamo rimasti in sei ma domattina ci raggiunge Corrado.


Tutte le foto di oggi. Le foto di Massimo.
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venerdì 29 giugno 2007

-24 bis- ROMAGNA ADDIO

(da Campigna a Camaldoli, km 18, per un totale di km 415, alla media di 4,6 km all’ora, ore camminate 90, dislivello dai 1080 metri sul livello del mare di Campigna ai 1530 di Poggio Scali sul crinale del sentiero Gea 00)

Carlo, guida ambientale di Rimini, Marco, giovane pensionato romagnolo ex magazziniere di Gabicce Mare, Paolo, la nostra cambusa vivente di Padova, Carla, maestra di matematica finanziaria di Forlì, Franco, esperto di trattori finlandesi di Cura di Vetralla, Alessandro, blogghista del mio blog, giovane dipietrista assessore comunale di Cusano Milanino. Oggi siamo in otto, un piccolo plotone di camminatori in transumanza. E abbiamo perso Campi, il cagnotto che ci ha fatto da guida ieri. Pensavamo che ci avesse lasciati per sempre e che fosse tornato nella sua casa di legno di Lago di Corniolo. La cosa ci dispiaceva, naturalmente, ma eravamo anche felici che fosse tornato dai suoi. Invece stamattina ce lo troviamo accucciato davanti alla porta dell’albergo di Campigna che ci aspetta fedele, con occhi affettuosi e pronto per la partenza. Il grosso San Bernardo dell’albergo lo infastidisce ma lui sa come comportarsi con le grosse taglie. Da una parte è piacevole pensare di aver fatto breccia nel cuore di un botolone degli Appennini. Dall’altra non sappiamo che decisione prendere. Ci piace l’idea che ci segua fino a Cura di Vetralla come ci è piaciuto il fatto che abbia creduto nella nostra marcetta fin dall’inizio, senza chiederci perché. Easy Rider, la route 66, James Dean, Forrest Gump, Kerouac, On the road. Campi non sa nulla di tutto ciò. Ma crede in noi. Quando lo vediamo caricato a forza su un’auto che lo riporta indietro, e lo sentiamo ringhiare, non ci basta pensare che lo facciamo per il suo bene. Ci sentiamo dei bastardi. E’ la dura vita del viandante.
Vediamo Paolo trafficare in un andirivieni fra le cucine e il suo zaino che si gonfia a dismisura. Non abbiamo bisogno di chiedere. Sta lavorando per noi. Carlo, la guida ambientale di Rimini arriva insieme a Marco, il giovane pensionato di Gabicce Mare. Si parte abbastanza presto prendendo il sentiero per il passo della Calla che costeggia la strada statale. Siamo immersi in un mare di verde, la celebre foresta casentinese. Non solo non fa caldo ma direi proprio che fa fresco. Per Giorgio fa invece un freddo cane. “Spira un vento gelido”, dice rabbrividendo da sotto la giacca a vento come se parlasse della sua esperienza nel gulag siberiano. Continua a chiedere in maniera petulante: “Ma voi non avete freddo?” allibito del fatto che noi tre indossiamo una leggerissima maglietta. La foresta è misteriosa e affascinante. Sembra quella di Biancaneve e i sette nani. Giorgio è Brontolo. Carla è Biancaneve. Io ovviamente Pisolo. La salita è salita ma senza esagerazioni. Arrivati in cima passiamo il confine tra Romagna e Toscana. Qualcosa di più del limite tra due regioni, anche se, ci dicono, per un romagnolo la bestia nera non è il toscano ma il marchigiano. “I marchigiani erano quelli che riscuotevano le gabelle ai tempi dello Stato Pontificio”, spiega Marco. Robe che non si dimenticano nemmeno dopo secoli. Per noi è la quarta regione dopo Trentino, Veneto, Emilia-Romagna. Ma soprattutto rappresenta la fine del lungo inseguimento della nostra personalissima linea gotica. Come se fossero finite tutte le salite e d’ora in poi fosse tutto in discesa. Imbocchiamo il sentiero del crinale, il mitico Gea 00. A sinistra la Romagna, sembra un po’ più chiara. La Toscana, a destra, appare più scura. Probabilmente i romagnoli hanno tagliato più alberi e hanno lasciato più vuoti. Il crinale non è come ci aspettavamo. Giorgio pensava a una lunga striscia senza alberi, assolata, con grandi vedute sugli Appennini. Io che – come sapete - conosco la montagna e che ho una visione più “alpina” pensavo ad un crinale più ripido, con burroni a destra e a sinistra, che desse l’impressione dell’altezza, e un sentiero in mezzo, sassoso. Invece camminiamo tutto il giorno su una specie di strada forestale, buia e magica, all’ombra di faggi secolari, immersi in una temperatura da frigo bar. Una passeggiata quasi al coperto, senza vedere il cielo se non un paio di volte, una interminabile galleria verde. Forse l’unica volta che vediamo il cielo è al Poggio Scali, tetto di questo tratto di 00 e tetto della nostra lunga marcetta con i suoi 1530 slm. Un panettone con vista a 360 gradi. Come d’obbligo qualcuno dice: “Con un po’ meno di foschia si vedrebbe il mare”. Mi sento in diritto di dire: “Guardate a nord, si vede Lavarone. Guardate a sud, si vede Vetralla”. Giorgio assiste senza parole al nostro delirio e alla fine sbotta: “Ma che vi siete bevuti?”
Sul tetto del Poggio Scali ci beviamo due Forst in lattina gelate. E’ Paolo che le tira fuori dal suo zaino miracoloso insieme a: tre panini con prosciutto crudo e formaggio, due etti e mezzo di mortadella (“E’ mortadella “Novecento””, dice, ma adesso la chiamano “prosciuttella”), tre etti di stracchino, tre etti di olive, due etti di salame di Felino, mezzo chilo di pane al latte. Alla fine salta fuori anche un pacchetto di cantuccini. Non è più il Paolo di una volta. Ha dimenticato il Vin Santo. Sull’affollata cima di Poggio Scali, mentre noi siamo impegnatissimi nello scontato rito giapponese delle fotografie, arrivano accaldati un ragazzo e una ragazza olandesi nascosti sotto due zainoni che ridicolizzano i nostri. Vengono da Chiusi e vanno al passo del Muraglione, un trekking da una settimana. Tirano fuori una megapagnotta di pane toscano da almeno un chilo, lo spalmano di formaggi vari, issano di nuovo i loro zaini. Ma non possiamo lasciarli partire prima di aver soddisfatto la nostra curiosità morbosa: quanto pesano i loro zaini? La ragazza dice: “Thirteen”. Trenta, traduco io che considero l’inglese la mia lingua madre e che, soprattutto, ho sollevato quel mostro fatto bagaglio. “Tredici”, mi corregge Giorgio che frequenta il Wall Street Institute di Corso Buenos Aires. Parte il dibattito. Carlo dice “Non meno di 15”. Marco con coraggio parla di 17 chili. Giorgio non si pronuncia. “Non voglio sapere nulla degli zaini altrui, mi basta il mio”. La fanciulla olandese con una mano sola solleva lo zaino, lo indossa, e parte come una gazzella.
E’ questo il momento in cui il nostro gruppo diventa un gruppone. Siamo inseguiti da nord da Carla e ci viene incontro da sud Franco. Il ricongiungimento generale avviene sotto Poggio Scali nonostante i telefonini non funzionino. E’ stato il dramma delle giornata. Vodafone no, Tim qualche tacca, Wind peggio che andar di notte. Il collegamento con Franco è il più complicato. Lui non sa dove noi siamo e noi non sappiamo dove sia lui. Ci inseguiamo per un paio di ore urlando nella foresta nera disperati appelli : “Non ti sento! Dove sei? Parla più forte! Spostati”. Improvvisamente il miracolo. Sento perfettamente la voce di Franco e lui mi conferma che la mia voce gli arriva chiara e forte. “Finalmente possiamo parlare”, gli continuo ad urlare. “Se la smetti di urlare e ti volti lo vedi”, ridacchia Giorgio. La banda Vodafone-Tim-Wind e il suo disinteresse per la copertura totale ed efficiente del territorio italiano ci fa saltare il quotidiano collegamento con Barabba. La Laura e Matteo Caccia ce la mettono tutta ma – come si dice oggi nelle migliori famiglie – non c’è campo. Tradotto: niente palle. Ci risentiamo lunedì.
Finalmente la discesa, veramente faticosa, e l’Eremo dei monaci camaldolesi. Una serie di casette molto carine, una chiesa, un territorio sacro circondato da croci e protetto da un lungo e alto muro che ricorda la caratteristica principale del luogo, la clausura. Visitiamo la cella di San Romualdo, il fondatore dell’Ordine, facciamo i turisti nel negozietto, ci esibiamo nell’orrenda foto di gruppo. All’Eremo si aggrega Alessandro, arrivato da Cusano Milanino. A questo punto siamo finalmente otto. E tutti ed otto giù verso il paese. Un’altra mezzora di discesa. I piedi cominciano a dolere. A Giorgio è passato per la fatica anche il freddo. Arriviamo all’albergo Camaldoli dove ci aspettano due o tre sorprese. La prima: abbiamo dimenticato i documenti a Campigna. La scoperta ha un sapore di già vissuto. Sembra ieri quando ci accorgemmo che la mia patente e la Carta di Identità di Giorgio avevano preferito stare ancora un giorno a Cornedo prima che Gian Paolo li andasse a recuperare. La seconda: finalmente il bucato. Per Giorgio è l’equivalente della festa di Halloween. Si presenta gioioso nella mia stanza pretendendo la consegna di mutande, calzini e magliette bianche. Facendo uso di tutta la sua carica erotica e la sua capacità di seduzione è riuscito a convincere Maria Pia, moglie di Maurizio, gestore dell’albergo, a concederci la sua lavatrice. La terza: incontro ravvicinato con il cinghiale che scopriamo mentre passeggia tranquillo fra i tavolini del bar di fronte all’albergo. Alessandro, uomo che unisce la sconsideratezza al dipietrismo più sfrenato, si precipita dal povero cinghialino con un pezzo di pane in mano e cerca di carezzarlo e nutrirlo. Maurizio lo redarguisce. “Ieri un grullo come te è finito all’ospedale con un dito perforato”, dice. E poi: “Se lo viene a sapere la forestale ti fa la multa per adescamento di animale selvatico”. L’adescatore di animali selvatici si ritira vergognoso. Per punizione Alessandro viene inviato a recuperare i nostri documenti.
Bollettino medico: spossatezza generale per entrambi, ma la febbre è scomparsa, la piccola vescica mia non rompe, le vesciche di Giorgio sono un ricordo.
Telefonate poche: la mancanza di tacche ha reso difficoltose le comunicazioni e anche l’invio di foto e video. Per questo il nostro sito da ieri non ha aggiornamenti visivi. Riescono a superare il black out Massimo da Viareggio e Daniela da Padova per avvertirci che arriveranno domani a Bibbiena. Telefona anche Fulvia per darmi la fondamentale notizia che un’anguria al giorno toglie la ritenzione idrica di torno. Telefona anche Toni Capuozzo. Tra continue scariche cadute di linea ci vuole dire il suo entusiasmo per il racconto di ieri su Wilmer il poliziotto romagnol-californiano. Anche Patrizia e Piergiorgio ci avvertono che vogliono aggregarsi. Patrizia fin dai prossimi giorni, Piergiorgio quando saremo nel Lazio.


Tutte le foto di oggi.
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giovedì 28 giugno 2007

-23 bis- SUL CRINALE, DUE UOMINI E UN CANE

(da Corniolo a Campigna, km 14 per un totale dall'inizio di 398 km, alla media di 4,6 km all'ora, ore camminate 86, dislivello odierno da 600 metri sul livello del mare a 1080)

Zoppo, occhi bianchi insanguinati, coda mozza e tozza, pelo arruffato, praticamente nano, qualcosa che dovrebbe essere uscito fuori da un'orgia tra un samoiedo, un pastore tedesco ed un bassotto. Passiamo davanti alla sua bella cuccia di legno, in località Lago di Corniolo, lui mette la testa fuori, ci guarda, ci viene incontro, ci annusa e decide all'istante di venire con noi. Giorgio è fermo a telefonare. Lui gli gira attorno un paio di volte, impaziente, come per dire: "Si va o facciamo notte?" Poi si incammina zoppicando e noi dietro.

Nella salita verso lo scavallamento degli Appennini oggi stiamo facendo la tappa che ci è stata prospettata da tutti come la più terribile. "Quei tornanti sono veramente duri", ci terrorizzavano. Per questo noi avevamo anche deciso di spezzettare l'"ascesa" in più parti. Corniolo-Campigna, in fondo, sono solo 11 km, una distanza assolutamente percorribile anche da due marciatori ormai stanchi come noi. Ma la sorpresa è grande quando ci accorgiamo che i tornanti non sono poi così orrendi. Forse è per questo che per rendere meno facile l'impresa scegliamo una scorciatoia, il sentiero 259, con segnavia bianco e rosso. Io ho ormai imparato, dopo molti anni di escursioni, che le scorciatoie sono sempre una fregatura. Ma ogni volta ci ricasco. Passiamo l'agglomerato di tre casette chiamato Lago di Corniolo anche se non c'è nessuna traccia di lago. "Mille anni fa", ci spiega un giovanotto sbracato su una sdraio a prendere il sole, "una frana ha bloccato il Bidente di Celle proprio qui davanti creando un piccolo lago". Non sarebbe il caso di trovare un nome più attuale? Poi riflettiamo che ieri abbiamo passato il paesello di Isola dove non c'era alcuna traccia di isola. Evidentemente gli abitanti non hanno la preoccupazione di far corrispondere la toponomastica alla realtà ambientale, un po' come Novi Ligure che sta in Piemonte. Dopo Lago, Corniolino. Siamo ormai nel parco nazionale delle foreste casentinesi. Come in tutte le situazioni del genere esistono contrasti e tensioni. Gli abitanti, soprattutto agricoltori, vorrebbero maggiore libertà di azione. Gli ambientalisti, molto preoccupati della salute del lupo e pochissimo del benessere dei locali, si oppongono a progetti di sviluppo tipo la costruzione di piste da discesa. Due visioni inconciliabili che vediamo tradotte in grandi scritte sui bordi della strada. "Più lupi, meno piste". Conto fino a tre. Ormai le reazioni di Giorgio riesco a prevederle. La battuta è in arrivo. Puntuale: "Ma cos'è, la campagna antidroga di Corniolo?" La scorciatoia arriva improvvisa e subdola proprio a Corniolino. "Sei veramente sicuro che dobbiamo prendere questo Stelvio in una giornata di cotta?", dice Giorgio. Io, con la sicurezza di chi queste cose le sa perché ce l'ha dentro, gli spiego con sufficienza: "Giorgio, lascia fare a me. Io conosco la montagna. Cento metri e arriviamo sul crinale". E lui: "Beh, se arriviamo sul crinale…"

Imbocchiamo il sentiero 259 subito raggiunti dal similcane. Abbiamo qualche difficoltà di rapporto con lui perché non conosciamo il suo nome. Piccolo briefing e salta fuori il nome di Campigna, come il paese verso il quale siamo diretti. Campigna, quindi subito Campi, come Alessandro è Ale, Francesco è Franci, Giovanni è Giò. Campi dimostra subito un totale disinteresse sia verso il suo nuovo nome che verso il ruolo di guida che gli affidiamo. Stroncato dalla prima parte della scorciatoia si trasforma in una lingua penzolante con attaccato un cane e si pone subito nelle retrovie del gruppo, posizione che non abbandonerà mai, nemmeno per improvvise e brevi discesette.

Il paesaggio è notevole. Sono ormai un ricordo la piana di Schio, la traversata dei Berici, il lungo stradone di Occhiobello che io percorsi febbricitante. Ormai siamo in piena foresta. Gli uccelli cantano, le cicale pure, ogni tanto si sentono cascatelle nascoste nel verde, ogni tanto compaiono ruderi di antichi casolari. Ogni tanto si piomba nel silenzio più assoluto. "Lo senti il rumore del silenzio?", poeteggia Giorgio. "No", rispondo io senza il minimo rispetto per il momento lirico di Giorgio. Il cambio del paesaggio ci dà finalmente la sensazione reale dei km percorsi, ingrandisce e rende palpabile tutto quello che abbiamo fatto finora. Improvvisamente ci rendiamo conto che siamo più vicini all'arrivo di quanto non lo siamo al punto di partenza. L'impressione che abbiamo è anche che da questo momento in poi tutto sarà più bello, più gradevole ed armonioso. Camaldoli, Arezzo, la Toscana, un po' di colline umbre, l'alto Lazio. Speriamo. Ogni tanto guardiamo indietro e scopriamo Campi sempre più stremato. Per inserirsi nel gruppo, forse anche per rendersi simpatico ai nostri occhi, procede a strappi come se avesse anche lui sulle spalle 400 km. Non ho il coraggio di guardargli i piedi per vedere se ha le vesciche. Quando proprio non ce la fa più, si sbraca all'ombra. Cerchiamo di fargli bere un po' della nostra preziosissima acqua ma lui la schifa. Si vede che non gli piace la Rocchetta gasata. Devo dire che se guardo alternativamente Campi e Giorgio non vedo differenze. Tranne che Campi non ha lo zaino. E che Giorgio ha cominciato ad andare molto veloce. Chi di voi è stato molto attento sa che quando Giorgio aumenta l'andatura è vicino al collasso. Ma stavolta c'è nella sua andatura qualcosa di nuovo che non riesco a decifrare. Glielo chiedo: "Ma perché corri? "Per raggiungere il tuo stramaledetto crinale", dice. "Ma il crinale è questo, dico. "Questo è il crinale?", urla. "Questa a casa mia si chiama salita. Crinale sei tu, sei un crinale di guerra".

Sulla destra del crinale, ci hanno detto, c'è il Poderone, un agriturismo. E dentro il Poderone c'è Lorenzina. "Non potete andare a Campigna senza fare la deviazione per conoscere Lorenzina", ci ripetono da giorni tutti quelli ai quali abbiamo chiesto consiglio, da Franco della Colombarina, alla guida ambientale Carlo, a Silvia la guardiana dell'Ostello della Gioventù. La nostra regola è ferrea. Siamo contro ogni tipo di deviazione. Del percorso, si intende. Ma qualcosa di misterioso ci spinge verso il Poderone e Lorenzina. "La fame?", azzarda Giorgio. Ma poi ammette che anche lui spera in un nuovo innamoramento. Ci stiamo abituando male. Stiamo prendendo il vizio. E comunque nessuna eccezione alla regola. L'innamoramento con Lorenzina scatta quando non l'abbiamo nemmeno ancora vista. Siamo appena entrati che una voce ci raggiunge dalla cucina. E' come se ci aspettasse. Ci abbraccia. Ed è subito chiacchiera. Ci dà asciugamani, ciabatte, fettuccine, sangiovese. Ci racconta la sua storia. Ci mostra la sua tenuta. Quando ci lasciamo, quattro ore dopo, in clamoroso ritardo sulla tabella di marcia, ci salutiamo come vecchi amici. Lorenzina, strasicura che lei rappresenterà per noi prima o poi ancora una deviazione, ci dà un appuntamento generico ma inderogabile.

Ripartiamo appesantiti dal cibo. Campi, che ci ha aspettato diligentemente fuori, sembra invece sollevato. Per quattro ore ha dovuto sopportare le molestie sessuali di Bud, il bellissimo pastore tedesco di Lorenzina. E' talmente felice Campi di riprendere la strada che per quasi più di cento metri la lingua non gli penzola.

A questo punto la mia nota onestà intellettuale mi fa obbligo di raccontarvi che il crinale che tanto ha spaventato Giorgio in realtà ha colpito me. La prima piccola, timida, graziosa vescichetta è comparsa sul lato destro del mio secondo dito del piede sinistro. Il dito che sta accanto all'alluce. L'indice in buona sostanza. Per me è uno smacco anche se vi assicuro che non mi fa male per niente, anzi non me ne sarei nemmeno accorto se non avessi provato una debolissima sensazione, quasi impercettibile, di disagio. E' bastato un piccolo intervento, senza tanta pubblicità come invece è solito fare Giorgio, per ricondurre tutto a norma. Peccato che Giorgio abbia dato la notizia all'Italia, alla Laura e a Matteo Caccia durante la trasmissione Barabba su Radio2. Avrei voluto arrivare a Cura di Vetralla integro, percorso netto senza nessuna vescica o in alternativa mi sarei accontentato che nessuno lo sapesse.

Arriviamo a Campigna poco dopo le cinque. Sul piazzale ci aspetta preoccupato Paolo, l'uomo dei Colli Berici, il marciatore che ci ha accompagnato la prima volta da Cornedo a Pederiva, la seconda volta da Occhiobello ad Aguscello e poi a Santa Maria Codifiume. L' uomo diventato famoso, in tutto il padovano, per avere più vesciche di Giorgio e per l'intenso "rosso mela della val di non" che gli colora il viso quando supera i venti km.

Campigna non è un paese. E' solo l'ultimo avamposto prima del passo della Calla, due alberghi e niente più. Campi, una volta capito che noi siamo sistemati, scompare senza fare un bau. Paolo si tuffa nella piscina. Noi cominciamo a combattere con i collegamenti Internet e soprattutto con i telefonini che non prendono. Alle 23 e 26 solo sei dei 37 minivideo girati oggi sono partiti. E nessuna delle foto. Domani sarà la stessa storia. Che cosa succederà a questo post io non posso ancora saperlo. L'unica certezza, per stanotte, è che domattina arriverà Carlo, la guida ambientale, insieme ad un suo amico. Franco, di Cura di Vetralla, ci verrà incontro sul sentiero 00. Ceratti ci aspetterà a Camaldoli. E' cattolico, lui.


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LE MAGLIETTE DELL'IMPRESA




Sono a tiratura limitatissima (100 in tutto), ma ne abbiamo ancora un po' (taglie S - M - L - XL). Solo bianche. L'autentico, il vero, il grande "mai più senza" di questa estate. Per aggiudicarvele, scrivete qui.

mercoledì 27 giugno 2007

-22 bis- IL POLIZIOTTO AMERICANO SUL BIDENTE

(da Santa Sofia a Corniolo, 15 km oggi per un totale di 386 km dalla partenza, media generale 4,7 km all'ora, ore camminate 83, dislivello di oggi da 125 metri sul livello del mare a 600, paesi attraversati Isola, Cabelli, Berleta)

Wilmer Casadei si presenta davanti a noi vestito come un poliziotto di Los Angeles anni Ottanta. Sembra uno dei Village People. Tutto nero, camicia nera col suo nome "americano", T.W.Barner, e i gradi di sergente sulla spalla sinistra, cintura non di ordinanza tutta metallica e con grande fibbia, pantaloni neri, con banda bianca, infilati dentro gli stivali nero da rodeo. Entra nell'Osteria di Berta, a pochi km da Corniolo, località Berleta, dove stiamo consumando uno spuntino a base di piadine preparate proprio da Berta mentre ci spiega che la sua casa si chiama Cafarnao perché così decise un giorno un vescovo palestinese di passaggio. Wilmer ordina un panino e una bottiglia di vino bianco. Non ha l'aria da sbruffone e nemmeno quella della caricatura dell'americano Alberto Sordi. Però non passa inosservato. Guardiamo fuori dalla vetrata. Ha parcheggiato la sua moto poco distante. Alla prima occhiata distratta ci sembra un'Harley Davidson. Ma c'è qualcosa che non va. La guardiamo meglio. Sembra un oggetto siderale. E' lunga quasi tre metri. Tutta carenata, non si vede una ruota. Usciamo per vederla meglio. Nella parte bassa, accanto alle pedaliere, ha una centralina elettrica piena di interruttori e di voltmetri che comandano una serie di luci al neon e di faretti stroboscopici che illuminano il perimetro della moto rivolte verso l'asfalto. A sinistra, davanti, ha la radio. Dietro, la fondina per la pistola. La pistola non c'è ma i proiettili si.

Sul manubrio fa bella mostra di sé il telepass. E' tutta nera ed appare anche a una visione approssimativa molto pesante. "Pesa trecento chili", dice Wilmer. "L'ho costruita io con le mie mani. Ci ho messo tre anni e mi è costata 36 mila euro". Giorgio che non capisce una mazza di motociclette esclama: "Chissà quanto corre!" Wilmer lo guarda con disprezzo. "Teoricamente potrebbe andare a 195 km all'ora". "E perché non ci vai?", incalza Giorgio. "Questa è una moto fatta per andare lentamente. Io ci vado al massimo a 110, in autostrada". Abituati come siamo da qualche giorno a scansare bolidi tutti piegati in curva pilotati da tanti similValentino incoscienti abbiamo subito un moto di irresistibile simpatia per Wilmer. E ci facciamo raccontare tutto. "Sono un insegnante di sostegno per ragazzi con problemi. Ma sono anche nel ramo alberghiero. Ho moglie e un figlio a Cesena. Ho una Porsche, ma vado piano anche con quella. Non sono un birro". Sul birro sia io che Giorgio abbiamo un attimo di sbandamento. Come tutte le volte che ci imbattiamo in una parola nuova, scegliamo la strada dell'approfondimento. Wilmer ci aiuta. "Birro è lo sborone romagnolo, quello che fa il figo con le donne esibendo soldi, macchine e lusso. Non va in Porsche, va in Ferrari, macchina orrenda, scomoda e pericolosa". Ma perché sei vestito così? La domanda ci scappa ed è una domanda politicamente scorretta. Siamo noi i primi che ci secchiamo quando qualcuno ci chiede il perché della nostra "lunga marcetta". Ma Wilmer ci risponde tranquillo. "Avete visto la moto? Posso salire su una moto del genere vestito con un gessato e la cravatta?"

Giorgio continua a guardarlo come un marziano e anche io, che il mondo delle moto un po' lo conosco, sono interdetto. Wilmer rilancia. Ci dice che va in giro sempre solo ("io, la moto e un libro"), che studia i testi buddisti, e che sale su queste montagne non solo per l'aria fresca, per le fonti, per i prati ma perché l'anima va portata in alto. Poi ci guarda e dice: "Ma perché, non siete d'accordo?" A questo punto ci conquista definitivamente. Scatta il nostro solito innamoramento. Ma stavolta c'è qualcosa di più. Questo è un incontro fra simili. Non siamo certo noi, conciati come siamo, diretti a Roma a piedi, a poter dare patenti di normalità a Wilmer che, giustamente, guidando una moto da poliziotto, è vestito da poliziotto. E lui ci sorprende ancora. Ci domanda: "Ma voi chi siete?" Noi rispondiamo in automatico. "Siamo due coglioni che non sapevano che fare questo mese". E lui, serissimo: "No, voi siete due persone per bene". Mi passa velocemente per la testa una proposta indecente. "Posso farci un giro?" Non ho il coraggio di chiederlo anche se sono un vecchio motociclista fanatico di Bmw. Wilmer probabilmente me lo legge negli occhi e comincia a descrivere la difficoltà di guidare una moto del genere. "Prendere una curva con questa è un'arte. Bisogna lavorare continuamente di frizione. Entrare in una curva con la velocità troppo alta vuol dire non riuscire a piegare. Ma se entri con una velocità troppo bassa la moto ti crolla a terra. Basta un attimo" Passano due ore con queste chiacchiere. Girano attorno a noi anche a quattro o cinque vecchietti allibiti che intervengono nella conversazione con risultati spesso comici. Ma la situazione esplode quando La Laura e Matteo Caccia ci chiamano per il collegamento con Barabba. Proprio in quel momento arriva un altro motociclista, questa volta vestito tradizionalmente da motociclista, in sella ad una Bmw. Scende e mi viene incontro. "Sono Franco, di Cura di Vetralla". Il poliziotto Wilmer, i vecchietti sempre più incuriositi e desiderosi di capire, Berta che ci porta il caffè, La Laura e Matteo che urlano nel telefonino che non prende, Franco che cerca di spiegarmi che è partito due ore fa da Cura di Vetralla per salutarci un attimo e che deve tornare subito a casa. Una scena da delirio. Se un regista volesse crearla dovrebbe faticare sette camicie. Io e Giorgio, un po' stupiti, un po' contenti, ma sicuramente convinti di stare vivendo un momento da Helzapoppin, portiamo a casa miracolosamente il collegamento con Barabba. Poi, un attimo dopo, ci troviamo di nuovo in silenziosa marcia verso Corniolo. Senza Franco che ci ha dato appuntamento a venerdì quando verrà a camminare con noi per tre giorni, senza Berta, alla quale abbiamo appena fatto in tempo a pagare il conto, senza i vecchietti che staranno ancora lì a commentare la loro "giornata particolare". E senza Wilmer. Ma nel silenzio riconquistato ecco il rumoro molto soft e rispettoso dell'astronave del professore di Cesena. Scala le marce, rallenta, ci supera di poco, giusto il tempo per permetterci di sorprenderci perché non sta ascoltando musica heavy metal ma gli Stadio come un coppia di innamorati di buone maniere. Poi apre il gas, lo shuttle prende quota dolcemente. Lui ci urla qualcosa. A Giorgio sembra: "Viva l'America, abbasso il comunismo". A me sembra: "Abbasso l'America, viva il comunismo". Non lo sapremo mai, o forse lo sapremo molto presto. La sua ultima frase è: "Arrivederci. Due come voi li incontrerò sicuramente di nuovo sulla strada".

Marciamo in leggera salita, ma veramente leggera anche se continua. Siamo partiti alla quota 125 di Santa Sofia e puntiamo ai 600 di Corniolo. Stamattina a Santa Sofia visita alla libreria edicola di Orfeo per gli ultimi saluti e poi spesa al supermarket, panini col prosciutto cotto, le solite banane per Giorgio e le solite mele per me. Rivoluzione nella nostra dieta, niente più pomodorini. Si spiaccicano e il succo si sparge per ogni dove. All'uscita di Santa Sofia incontriamo il primo cartello che indica la direzione di Roma. Un fremito e poi scopriamo che noi andiamo nella direzione opposta. Il cartello ci porterebbe a Mercato Saraceno, sulla E45, la Cesena-Orte. Ormai abbiamo percorso quasi 400 km, sembra impossibile a pensarci ma è così. L'obbiettivo che abbiamo in testa da parecchi giorni è passare dall'altra parte degli Appennini. Arrivati in cima al passo della Calla imboccheremo questo mitico sentiero 00 che percorrendo il crinale ci porterà verso la Toscana. Ce ne hanno parlato tutti molto bene. E' bello, è fresco, è facile, è ombreggiato ed è in leggera discesa. A me, legato a vecchi pregiudizi, sembra un po' ridicolo con quel nome da gabinetto. Stiamo facendo in questi giorni tappe più brevi, quasi rispettose del nuovo ambiente e timorose di quella che tutti ci indicano come una discreta fatica. Ma almeno per oggi notiamo solo una strada senza traffico e un paesaggio molto bello tra boschi, casali e torrenti. Il tutto in un silenzio che ci regala una discussione di quelle inutili e oziose. Ci accorgiamo che non sappiamo distinguere un grillo da una cicala. La colonna sonora che ci accompagna è opera di migliaia di grilli, come sostiene Giorgio, o di migliaia di cicale, come sospetto io? Andiamo avanti per una decina di minuti prima di decidere con un compromesso risolutorio: "Chissenefrega. E' bello così".

Vediamo molti torrenti. Si chiamano tutti Bidente. Ma quanti Bidenti ci sono? In tutte queste valli scopriamo sulle cartine il Bidente di Ridracoli, quello di Corniolo, il Bidentino, il Bidente di Strabatenza, quello di Pietrapazza, quello delle Celle e il Bidente di Campigna. Stufo di questa multipla identità, dopo Meldola il Bidente decide di cambiare radicalmente nome e si chiama Ronco. Poi, soddisfatto, sfocia nell'Adriatico. Ma prima disseta mezza Romagna. Vediamo sia la centrale elettrica che l'impianto di potabilizzazione. Non vediamo, almeno per oggi, il grande lago di Ridracoli e la diga artificiale finita di costruire nel 1982. Speriamo solo di poterlo vedere una volta in cima al sentiero 00. Ci piace per adesso ammirare la maniera cortese e silenziosa con il quale la modernità e lo sviluppo si sono rapportate all'ambiente.

Molte telefonate: Lo Surdo, mio compagno di scuola alle elementari della Guido Alessi di Roma, ci annuncia il suo arrivo all'ultima tappa. Corrado di Arezzo, dice che arriverà uno dei prossimi giorni, Sara, la maestrina di Faenza, ci ricorda di andare a mangiare da Gigino, il ristorante del marito della sua amica Elena. Cristina, altra amica di Sara, ci manda una lectio magistralis sul sentiero 00 dove potremo ammirare il volo dell'aquila reale e la cacca del lupo. Anna dice che ci invidia. Adamo si limita ad un laconico: "PACE". Silvia, la guardiana dell'Ostello della Gioventù di Santa Sofia, ci chiama per avvertirci che Giorgio ha dimenticato i pantaloni da sera. Ce li farà arrivare a Corniolo, insieme a un rifornimento di Compeed per la nuova Vescicona e di batterie per il Garmin che consuma più di una Suv. Arianna di Perugia, l'organizzatrice del festival del giornalismo, ci annuncia il suo arrivo a Città della Pieve con la sua maglietta autoprodotta perché, dice, la nostra fa sinceramente cagare. La nostra maglietta, che invece è stupenda, ha un successo incredibile. Sono molti i lobbisti che ce la chiedono e le prime sono già partite.

Comunicazione di servizio: da domani i cellulari stenteranno a funzionare. Solo i Vodafone forse ce la faranno. Ma, ci assicurano, gli sms, chissà perché, arriveranno. Quindi, messaggini a tutto spiano. Ma la pubblicazione di foto, video e forsanche diario quotidiano potrebbe subire qualche rallentamento.


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martedì 26 giugno 2007

-21 bis- I LANZICHENECCHI BUONI

(da Cusercoli a Santa Sofia, 18 km oggi, 371 km totali, media generale in movimento 4,7 km all'ora, ore camminate 79, paesi attraversati Nespoli, Civitella di Romagna, Galeata)

Nel 1527 i lanzichenecchi risalirono la valle del Bidente diretti a Roma. Le popolazioni li guardavano un po' e non si opponevano al loro passaggio, anzi si arrendendevano subito. Loro ringraziavano violentando tutte le donne e massacrando tutti gli uomini. Gli abitanti di Santa Sofia, che non erano stupidi, decisero che tanto valeva non arrendersi, e cominciarono a menare le mani e anche di più. Nemmeno i lanzichenecchi erano stupidi e dissero: "Che ci frega di quelli di Santa Sofia? Cambiamo strada". Presero a sinistra e in vicinanza di un passo, fecero i soliti casini. Da quel giorno il passo si chiamò "Carnaio", indovinate perché.

Noi risaliamo la stessa strada, con atteggiamento un po' più amichevole. E infatti nessuno ci respinge all'arrivo a Santa Sofia. Anzi sono tutti molto cordiali. E così invece di andare al Carnaio, possiamo programmare la salita al passo della Calla e conseguente discesa a Camaldoli.

Ma andiamo con ordine e ripartiamo dalla mattina. Ci svegliamo alla Locanda del Cantone completamente abbandonati. Avremmo dovuto capirlo già ieri sera che aria tirava quando ci hanno chiesto di pagare tutto in anticipo. Facciamo perfino fatica a trovare una porta di uscita non chiusa a chiave. Una volta fuori, colazione, rifornimenti di frutta e sosta ormai di prassi in farmacia. Ne usciamo con una scorta di Polase per un anno, un antibiotico per Giorgio e new entry, il Blunorm, specialità del tutto inutile che il farmacista sostiene essere indispensabile contro la mia evidente ritenzione idrica (dopo 370 km di cammino sono ingrassato di quattro chili).

Partiamo alle nove e mezza, quasi un record. Abbiamo di fronte 16 km, tappa facile che vorremmo concludere entro le due. Non fa molto caldo ma c'è tanto vento. Io godo e Giorgio soffre in un continuo spogliarello e rivestimento. E' un turbinio di maglietta a maniche corte, maglietta a maniche lunghe, giacca a vento. Io procedo orgogliosamente con la mia t-shirt.

La tappa ha un protagonista nuovo, quasi un compagno di viaggio, silenzioso, non invadente e nemmeno fastidioso. Ma costante e presente accanto, dietro e davanti a noi. E' il Grande Tubo Verde. Una lunga infinita ferita tonda nella valle del Bidente che come un fenomeno carsico esce dalle montagne, percorre qualche decina di metri all'aria aperta, a volte sostenuto da ponti sospesi, a volte appoggiato a terra e poi improvvisamente scompare inabissandosi chissà dove per poi risorgere qualche decina di metri oltre. E' l'acquedotto di Romagna Acque che prende l'acqua dal bacino artificiale di Ridracoli e dopo averla trasformata in energia elettrica e averla potabilizzata, la porta nei campi e nelle case dei romagnoli. Il Grande Tubo Verde è la fonte maggiore di sostentamento per le amministrazioni pubbliche di questa zona. Una volta c'era anche il Pollo Del Campo, una cooperativa molto avviata che è stata messa in ginocchio dal crollo del mercato conseguente al panico dell'aviaria. Adesso fa parte del gruppo Amadori. Polli e soldi prendono un'altra strada.

E' proprio davanti al grande stabilimento della Del Campo che ci sorprende un improvviso cambiamento climatico. Io lo definirei un "tornado" ma Giorgio dice che esagero sempre e mi invita come al solito alla moderazione. Ci fermiamo e indossiamo le mantelline per evitare di arrivare fradici alla meta. Non sarebbe la cura ideale per la febbre sempre in agguato nel debole corpo di Giorgio. Poco prima del pollificio abbiamo anche un'altra sorpresa. Una ragazza ci aspetta a bordo della sua macchina sul ciglio della strada. "Voi siete i camminatori", dice. Giorgio la guarda con ammirazione. "Che sagacia. Visto come siamo vestiti poteva prenderci per vigili urbani". Ma Agnese è carina e gentile. Ci fa tanti complimenti e ci racconta che lavora nel Museo della Diga di Ridracoli. E' una caterpilleriana convinta e ha saputo di noi ascoltando Radio Due.

La statale 310 è percorsa da moderni lanzichenecchi su quattro ruote che mostrano la stessa ferocia di quelli antichi modificando solo all'ultimo la loro traiettoria qualche nanosecondo prima di stirarci. Ma è una strada anche piena di storia e di siti archeologici. La villa di Teodorico, che adesso bisogna chiamare Teoderico, l'antica città di Mevianola, il sito di Panetto e le continue rocche medioevali. Sono molte le campagne di scavi che vedono impegnati gli archeologi dell'Università di Bologna. Santa Sofia è stata fino a pochissimo tempo fa, meno di un secolo, terra di frontiera. Da una parte, fino al 1929, c'era il Granducato di Toscana. Dall'altra, lo Stato Pontificio. Forte è anche la presenza di Lui, il Duce. Molte strade, molte contrade, le ha fatte Lui. A pochi chilometri in linea d'aria ci sono Predappio, Carpena, Rocca delle Caminate. Le amministrazioni ultrarosse romagnole non si sono affannate a cancellare il ricordo e i segni di Mussolini. Anzi, intelligentemente, le ricordano negli opuscoli turistici.

Arriviamo a Santa Sofia in perfetto orario, alle due, nonostante la pioggia. Mi presento all'Albergo della Gioventù e faccio notare con orgoglio a Giorgio che non fanno una piega ad accettarmi. L'ostello è bello, accogliente e costa poco. Silvia è bella e accogliente. Ci presenta mezza Santa Sofia, ci trova gli alberghi per i prossimi giorni e la cena per la sera. Ceniamo al Fischio, terrazza sul fiume e sulle oche, un freddo mica da poco. Intervistiamo Fabio, l'assessore al turismo. Tenta di spiegarci perché Santa Sofia si autodefinisca "Città slow", cosa che aveva entusiasmato due camminatori lenti come noi. Conosciamo Orfeo, il libraio ed Oscar, corrispondente del Resto del Carlino.

Durante la mattinata mi ha telefonato Lucio Zampino, 72 anni, mio primo redattore capo ai tempi di Nevesport. Mi dice che lui, ormai residente a Campobasso, gira l'Italia in bicicletta. Ci scrive Francesca da New York che ci comunica la notizia: "Grazie a voi ho cominciato a correre ogni giorno un po'", Poi Antonella, Domizia, le ragazze padovane che minacciano una sortita venerdi e sabato. Facciamo il secondo collegamento con La Laura e Matteo Caccia per Barabba (Radio Due). Appuntamento per domani alle 14.

Bollettino medico: riprende la vescicosi di Giorgio. Debellate le prime tre, non riesce ad evitare la sfolgorante entrata in scena della Vescicona, una gigantesca bolla, particolarmente schifosa e gonfia, dietro il tallone del piede destro. Scatta il pronto intervento autogestito. "La vescica è mia e la gestisco io", dice Giorgio. Affonda l'ago con impeto e coraggio, la fa scoppiare e la riduce per il momento all'impotenza. "Domani è un altro giorno. Ci penserò domani". E va a dormire.


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lunedì 25 giugno 2007

-20 bis- RIPRENDE LA MARCIA

(da Meldola a Cusercoli, km totali 353 dei quali 13 oggi, media generale 4,6 km all’ora, ore camminate 76, paesi attraversati San Colombano, Gualdo)

Lo so, vi abbiamo spaventato. Ci sono arrivate tantissime mail, tantissimi sms e tantissime telefonate per incitarci a non mollare. Ma che senso ha incitare uno che ha la febbre? Con il termometro che andava su e giù come le colline imolesi (splendide le metafore di Giorgio quando la febbre supera i 38 gradi) non potevamo che fermarci e aspettare il responso dei medici. La cosa non ci ha fatto poi tanto dispiacere visto che eravamo capitati alla Colombarina, agriturismo di grandi livelli culinari e di basse temperature ambientali. Oggi però dopo due giorni di sosta e di convalescenza, decidiamo di partire dopo frenetiche consultazioni sul tema: sarà un rischio? La prima notte senza febbre ci dà coraggio e speranza. E anche un po’ di incoscienza. Basta una notte senza febbre per affrontare gli Appennini? Non sarà meglio aspettare ancora un giorno? Alla fine decidiamo di partire, ma aspettiamo le sei e mezzo di sera quando il caldo, il sole e l’asfalto sono più pietosi. Nel frattempo monitoriamo la temperatura di Giorgio. Mattino: 36,6. Mezzogiorno: 36,8. Pomeriggio: 37. I consigli per come superare la crisi febbrile di Giorgio sono diventati lo sport preferito dei nostri sostenitori e superano ormai di gran lunga i consigli sull’itinerario da seguire per scavallare gli Appennini. Dal “fottetene, alzati e cammina, domani passa tutto, è solo stanchezza”, al “è un virus che gira, ce l’ho anche io, è uno streptococco e passa fra tre giorni”, all’inquietante “è sicuramente una meningite, ti fa per caso male il collo?” Queste le diagnosi e le prognosi. Per la terapia andava forte la tachipirina, seguita a ruota dall’aspirina e, ultimo ma non meno importante, l’intramontabile antibiotico. Io impongo una soluzione suggerita da mia moglie, olio di semi di pompelmo. Giorgio accetta ma sento che lo fa solo per quieto vivere convinto che bene non farà ma nemmeno male. Di nascosto continua a prendere la sua amata tachipirina che io sospetto abbia sempre preso, dal primo giorno. E’ la sua epo. Aggiunge il Polase visto che quando avevo la febbre io, con Polase e tachipirina, avevo debellato il male in una sola notte. La conversazione verte ormai solo su temi medici. Giorgio si misura ogni mezzora la febbre e i battiti. Io, per emulazione, per spirito agonistico e anche un po’ perché non c’è niente altro da fare, mi accodo. I battiti diventano il nostro gioco preferito. Li cronometriamo col telefonino. Sulla febbre mi frega sempre. Ma sulla frequenza cardiaca c’è più incertezza, a volte vince lui a volte vinco io. Io misuro i battiti sul polso, con atteggiamento professionale. Giorgio li controlla sul collo e sembra un aspirante suicida che vuole terminare la sua vita strozzandosi. Approfittiamo di questa fermata di due giorni per curare meglio il corpo affaticato. Le vesciche di Giorgio sono ormai un ricordo. E le gambe non fanno più tanto male. Ogni tanto io scopro di averle gonfie e allora mi metto a letto con i piedi in alto. Spero che facendo così si sgonfino ma non so perché. Giorgio continua con i pediluvi verdi e freddi ma si lamenta perché l’acqua che esce nel bidet gli sembra tiepida. Non si riesce a capire se si tratta di una temperatura percepita o reale. Io faccio ricorso a tutte le creme possibili. Quella che decongestiona, rivitalizza e profuma il piede, quella che lo ammorbidisce, quella con la quale massaggio i polpacci, quella per l’eritema che ormai sta passando. Abbiamo quasi abbandonato la crema solare protezione 40. Siamo abbronzati come i ciclisti, trenta cm di braccia, il collo, la faccia, i polpacci fino a poco sopra il ginocchio. Giorgio dice: “Sarà terribile la prova costume”. Insomma si parte. L’addio è di quelli strazianti. L’innamoramento che ci coglie quasi sempre (e l’ultimo è sempre quello più coinvolgente) stavolta sedimenta - come direbbe Massimo Cirri – una “convivenza” di ben tre giorni, un’eternità per i nostri ritmi da una botta e via. Franco in questi tre giorni ci ha nutrito, curato, ha prevenuto ogni nostro desiderio, ha trovato un dottore in cinque minuti, è andato a comprare il succo di pompelmo per il malatino, ci ha fatto trovare i giornali il mattino presto, ci ha proposto ogni volta un menù di largo respiro solo per noi. Ci ha trattato non come figli ma come amanti. La sera, davanti all’ultimo bicchiere di albana, ci ha raccontato di quando era bambino, dei tedeschi che scappavano, dei fascisti che torturavano e uccidevano. “Lì, proprio lì, davanti a questa casa, torturarono il medico tutta la notte e poi ancora vivo lo trascinarono in paese attaccato alla macchina e poi, ancora vivo, lo buttarono giù dal ponte”, racconta e si deve fermare per non piangere, col groppo in gola. Ci ha raccontato anche la sua vita da carabiniere, gli inizi in giro per l’Italia poi in Sardegna, la regione che gli è rimasta nel cuore e anche nella coscienza, ricordando tutte le volte che la legge barbaricina si scontrava con la legge dello Stato e non era poi così facile stabilire quale fosse meglio. E poi il ritorno a casa, comandante della stazione di Argenta, a fare il maresciallo burbero ma bonario, quello che non mandava in galera inutilmente la gente ma faceva rigare tutti dritti. Eccoci a salutarlo, ad abbracciarlo. Siamo rammolliti oppure questa nostra “lunga marcetta” così insolità ci abbassa le difese emotive, elimina la scorza del cinismo e ci consegna indifesi e disponibili a qualsiasi incontro con la gente che ci piace? E’ singolare come le nostre andature lente provochino infatuazioni veloci. Le gambe vanno a 5 all’ora, il cuore a mille.
Tredici km, dall’agriturismo di Franco alla Locanda del Cantone di Cusercoli. Dobbiamo ritornare indietro per i due stramaledetti km che tre giorni fa abbiamo percorso in salita, sudati come i cavalli alla fine del palio di Siena. Giorgio affrontando gioiosamente la discesa, se ne esce: “E’ incredibile come la stessa strada, presa da direzioni diverse, dia impressioni diverse”. Penso: è filosofia o febbre? Ma Giorgio insiste: “Tre giorni fa questi due km mi sembravano l’inferno”. Non è né filosofia né febbre. E’ Giorgio.
Prendiamo la statale 310 del Bidente. Sono ormai scomparsi da tempo i campi di mais e anche gli albicocchi, i peschi, i prugni, i peri che ci hanno accompagnato fino ad Imola e Faenza. Ormai è rimasta quasi solo l’uva. Accanto alla statale le solite villette del geometra che non ci hanno abbandonato dal vicentino in poi. Sembrano sempre tutte disabitate, hanno un perfetto prato verde ben rasato, un petulante cagnetto di piccola taglia che ci abbaia con convinzione e tante casette di plastica, tanti miniscivoli di plastica, tante piscinette di plastica gioia di bambini che peraltro non vediamo mai. Sembra una continua minigardaland privata. La statale 310 del Bidente è una roulette russa. Le macchine e le moto, più ancora dei camion, la percorrono a velocità insensate, sfiorando il guard rail e attentando alla nostra vita. Franco ci aveva avvertiti. “Camminate a sinistra e possibilmente sull’erba”. Ma l’erba non c’è. Solo quando la strada si allarga ci rendiamo conto che il pericolo è scampato. Mi accorgo che Giorgio cammina molto forte, sopra ai 5 km all’ora, nostro limite di velocità. Lo fa tutte le volte che è stanco e non vede l’ora di arrivare alla doccia, alla cena e al letto. Giovanni l’altro giorno gli aveva detto: “Come Pantani. Quando gli chiedevano come mai andasse così forte in salita, lui rispondeva: “Perché non vedo l’ora che finisca””.
Arriviamo a Cusercoli in un lampo. Facciamo tredici km in due ore e mezza. Media sopra i 5 km all’ora. Giorgio si misura la febbre. 37,4. Io dico: “Poteva andare peggio”. Lui dice: “Poteva andare meglio”. Il solito bicchiere pieno a metà. Sta di fatto che si decide che domani andremo a Santa Sofia, gli ultimi 16 km prima delle salite vere dell’Appennino. Ci accompagnano i messaggi e le telefonate di Fulvia da Genova, Katia da Schio, Ceratti da Cusano Milanino (ci dà appuntamento all’eremo di Camaldoli), Alberto Oldrini, Federica, la veterinaria di Milano, Silvia da Milano, Luca di Ciaccio da Gaeta, Alberto che ci manderà miracolose barrette di integratori, Silvia da Modena e il cuoco Nico di ritorno dall’Europa dell’Est.


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sabato 23 giugno 2007

-19 bis- LA LUNGA MARCETTA IN PERICOLO


Il gallo comincia a cantare alle cinque e mezzo. Inesorabile come un pennuto innamorato continua con il suo possente chicchirichì ogni cinque secondi. E’ un canto forte, orgoglioso, squillante. Dice proprio così: “Chicchirichì”, come un gallo che abbia studiato bene il copione dopo essere andato a scuola di dizione. A me sembra di averlo sul letto. Va avanti fino alle nove. In qualche modo ci ricorda Giovanni. Ci dirà Franco, il proprietario dell’agriturismo: “Sta corteggiando due galline e quindi fa gli straordinari”. Ci chiediamo: colpa del gallo troppo focoso o delle galline troppo ritrose? Franco dirà anche: “Prima o poi debbo ammazzarlo”. “Prima”, suggerisce Giorgio che ha 38 di febbre. Il gallo non c’entra ma il suo canto d’amore non aiuta la guarigione. Siamo fermi nell’agriturismo della Colombarina, sopra Meldola, sulla strada che porta alla Rocca delle Caminate. La giornata di ieri è stata dura, 33 km con troppo sole e troppo vento caldo. E’ lo scirocco ma qui lo chiamano garbino. Giorgio si misura la febbre e si decide di non partire. Ieri sera sono venuti a trovarci Massimo Cirri e sua moglie Alessandra. Hanno una casa a Palazzolo sul Senio, un’oretta da qui. Ci prendono in giro e ridono sulle nostre avventure e soprattutto non ci fanno la domanda di rito: “Perché?”. Cirri è psicologo, Alessandra psichiatra. Sono in grado di capire da soli senza fare domande. La giornata è di convalescenza per Giorgio e di riposo per me. Alla Colombarina ci riempiono di coccole. Siamo l’attrazione. Le nostre magliette con il cartello stradale del divieto ad andare a più di cinque all’ora e la scritta “A piedi da Masetti a Cura di Vetralla” incuriosiscono e divertono. Io ne approfitto per scrivere la rubrica per “Io donna”, per correggere le bozze del libro-intervista con Grillini e per fare i tagli dell’intervista televisiva a Erri De Luca della serie sul movimento del 77. Per essere il mio anno sabbatico forse lavoro un po’ troppo. Giorgio dorme. Ogni tanto si sveglia, si misura la febbre che va su e giù e dice: “Mi ricorda le colline imolesi”. Poi si fa un piatto di tagliolini allo scalogno, una tachipirina e torna a dormire. Vengono a trovarci anche tre ragazzi di Rimini. Carlo è guida ambientale e ci spiega come dobbiamo fare a scavalcare gli Appennini, la nostra ossessione. L’itinerario giusto, dice, è quello che scollina al passo della Calla. Sfiniti dai mille consigli tutti diversi decidiamo di dare retta a Carlo. Faremo tappa a Cusertoli, Santa Sofia, Corniolo, Campigna, eremo di Camaldoli, percorrendo il sentiero 00 in cresta. Sempre che la febbre di Giorgio scompaia e che non sia qualcosa di più serio. Viene una dottoressa, il medico di guardia, a visitare Giorgio. Gli trova la pressione un po’ alta ma, come tutti i dottori, non si sbilancia. Potrebbe essere la fatica, potrebbe essere qualcosa di virale, il polmone destro non respira troppo bene, vediamo se la febbre domani se ne va. Nel frattempo tachipirina. Se è qualcosa di virale bisognerà fare un po’ di antibiotici. Se è broncopolmonite bisognerà fare la radiografia. “E se fosse tubercolosi?”, chiedo senza suscitare particolare ilarità nella dottoressa, e questo è comprensibile, ma nemmeno in Giorgio che sopra i 38 di febbre non apprezza le battute. Per la prima volta ci rendiamo conto che la “lunga marcetta” è in pericolo. Se è una semplice influenza si tratta di aspettare qualche giorno. Altrimenti tutti a casa. Affoghiamo la tristezza in un piatto di fettuccine fatte in casa. Ci telefonano, per conoscere il bollettino medico, Antonio, l’uomo dei plantari di Imola, Sara, la maestrina di Faenza, Marco Ardemagni, Mina Welby, Giampaolo Osele, Guglielmo il commercialista di Bologna. Non ci telefona Giovanni. E questa è una notizia.

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venerdì 22 giugno 2007

-18 bis- WANDERING DEMOCRATICO

(da Faenza a Meldola, 33 km oggi, 340 km totali, media generale in movimento 4,6 km all’ora, paesi attraversati Villagrappa, Quattro, Forlì, San Varano, San Martino in Strada)

L’abbiamo chiamata “democrazia partecipativa in movimento”. Nome pomposo di cui andiamo orgogliosi. La “democrazia partecipativa in movimento” noi l’applichiamo e ci sembra di essere gli unici democratici in Italia. Non nel senso di partiti. “Come sarebbe a dire che non siamo partiti”, dice Giorgio. “Siamo partiti anche se non siamo arrivati”. Tipiche riflessioni profonde da asfalto torrido e da 35 gradi in su. Ma il problema è serio. In Italia, non c’è bisogno che ve lo ricordiamo, la democrazia spesso è solo apparente. E anche limitata. Non viene applicata nemmeno nel solenne momento delle elezioni che dovrebbero essere l’atto democratico supremo, e invece consentono al cittadino, al massimo, di prendere atto di scelte fatte nelle stanze del potere politico. In questa Italia dove nessuno ti invita realmente a partecipare, e quando lo fai vieni subito respinto, la nostra idea di rendere pubblico il numero di telefono e di invitare chiunque ad unirsi a noi, ci fa sentire dei campioni della democrazia, audaci e rivoluzionari. Come dar torto alla nostra amica Arianna che ci ha scritto: “State facendo una cosa culissima. State cambiando il sistema”. Andiamo oltre. Le istituzioni sono lontane dal Paese reale? Noi operiamo in senso inverso. Modestia a parte. Ma è’ un’operazione a rischio. Né io né Giorgio, in condizioni normali, penseremmo di fare 30 km con perfetti sconosciuti, magari fascisti, magari leghisti, magari berlusconiani, magari rompiballe. Di che cosa si parla con uno di destra per otto ore camminando e senza litigare?
Oggi si presenta all’albergo Vittoria di Faenza Guglielmo, commercialista di Bologna. E’ elegantissimo, tutto vestito di bianco come un tennista degli anni Trenta. Brandisce due racchette da nordic walking e ha infilati nelle orecchie due auricolari collegati a una radiolina. Non se li toglierà mai. “Musica classica”, dice. “Radio Tre”. Guglielmo ha una predilezione per Radio Tre. Ha fatto pezzi di “francigena” insieme a Sergio Valzania, direttore di Radio Tre e Radio Due. Ma ha fatto anche pezzi di “camino di Santiago”. E’ un camminatore insomma. Un viandante come noi. Noi siamo curiosi di avere notizie di questi due itinerari che ogni tanto qualcuno tira in ballo quando scopre quello che stiamo facendo. E’ con grande felicità e soddisfazione quindi che scopriamo il trucco. Guglielmo ci racconta che lui, come molti camminatori, si stabilisce in un albergo, fa una ventina di km, poi torna in taxi nell’albergo e il giorno dopo si fa riaccompagnare nel posto del giorno prima, fa altri venti km e ritorna sempre in auto all’albergo. E via così. Sempre, rigorosamente, senza zaino. E se c’è un pezzo di itinerario poco interessante? Quando la strada coincide con una provinciale trafficatissima? Facile, si salta, chissenefrega. E alla fine della giornata conti i km. Virtuali trenta, reali venti. Il nostro moralismo esplode. Ma che razza di viandante sei! Questo è cammino dell’ipocrisia. Giorgio lo vedo dubbioso: “Pensa che bello senza questo mostro sulle spalle”. Io faccio l’intransigente. “Potevamo starcene anche a casa a vedere Matrix”. A guardare superficialmente la gente che cammina per strada sembra tutta uguale. Ma per i puristi, quelli che mai camminerebbero sull’asfalto accanto ai Tir e alle Ducati roboanti, loro sono i professionisti e noi i dilettanti, loro sono la “nera” delle Tofane e noi il fuori pista, loro sono la nouvelle cuisine e noi la trattoria, loro sono l’organizzazione e noi l’anarchia. Per loro noi facciamo solo apparentemente la stessa cosa. Siamo compagni che sbagliano. A noi viene in mente che loro sono il villaggio vacanze e noi il vagabondaggio. Per noi anche l’asfalto bollente ha un senso, anche se riesce difficile da capire. Quello che vogliamo fare in questa occasione è percorrere l’Italia, attraverso le strade, i paesi, i bar, la gente, i dialetti. Trovando un compromesso tra il tempo e lo spazio, tra la bellezza dei paesaggi e la lunga distanza da percorrere. I sentieri piacciono anche a noi ma sarà pewr un’altra occasione. Un giorno si gioca a briscola e un altro a bridge. Dopo qualche km comincia anche la discussione politica, quando Guglielmo si accorge di camminare accanto a due pericolosi comunisti. Cerchiamo di indovinare. Odia Berlusconi, non sembrerebbe un appassionato di Casini e Buttiglione. Restano Bossi o Fini. Io direi Fini. Cominciamo a prenderlo in giro e lui sta al gioco. “Tu credi di essere furbo”, mi dice cercando di convincermi che sono le piccole aziende rosse quelle che non pagano le tasse e che nessuna grande azienda fa bilanci falsi e contabilità in nero. “Tu credi di essere furbo ma sei uno stronzo”, insiste dandomi dell’imbecille almeno una ventina di volte. Mi accorgo che provo un sottile piacere nel sentirmi dare ripetutamente dello stronzo da un ricco commercialista di Bologna vestito come un tennista degli anni Trenta. Insiste: “Nessuna grande azienda fa bilanci falsi o contabilità in nero”. Giorgio reagisce: “Ma dove vivi? Ma li leggi i giornali? Le grandi aziende immacolate? Hai mai sentito parlare della Fininvest, della Parmalat, della Cirio. Mani Pulite non ti dice niente?” Anche questa è Italia? Dopo qualche chilometro incontriamo un improbabile ciclista multicolore con tutina sgargiante della Mapei. “Finalmente vi ho trovati”. E’ Giovanni, pensionato di Forlì. Girava per le stradine del forlivese cercando di intercettarci. E ci riesce. Scende di bicicletta e ci accompagna per tutta la giornata insieme alla sua bici. Giovanni ha la mia stessa età. Tanto Guglielmo è un muto ascoltatore di musica classica, tanto Giovanni è un logorroico ossessivo che non molla la presa. Tanto Guglielmo è di destra tanto Giovanni è di sinistra. E così la politica riprende il sopravvento. Ma come in un silenzioso accordo io e Giorgio li lasciamo alle loro paranoie. All’ora di pranzo solito problema. Dove si mangia? Abbiamo i tradizionali pomodorini, cibo ufficiale della “lunga marcetta”, il pane e il prosciutto cotto. Incontriamo una sede del partito repubblicano, con tanto di edera, ormai trasformata in bar-ristorante. Ci passano sotto il naso piatti fumanti e abbondantissimi di fettuccine. Fosse per noi mangeremmo anche. In fondo è quasi l’una. Ma Guglielmo insiste per andare avanti fino a San Varano dove ci aspetta un suo cliente che ha una cava di ghiaia. Ci caschiamo ancora una volta. Ma la colpa è nostra. Dovevamo capirlo che in una cava sarebbe stato difficile mangiare. Così l’amico di Guglielmo praticamente ci rapisce, ci fa salire sulla macchina e ci porta a dieci km di distanza. Io la vivo come una violenza, guardo Giorgio il quale mi sembra più portato verso il coma vigile. Ma anche lui ha l’occhio trovo dell’incazzato. Il cliente del tennista anni Trenta se ne accorge e ci tranquillizza. Sembra il bandito buono, quello che rincuora la ragazzina rapita e le dice: “Non piangere, andrà tutto bene, domani tuo padre paga e tu troni a casa libera”. Il cliente ci dice: “Non vi preoccupate. Vi riporto esattamente dove vi ho presi”. Ma lo dice senza convinzione e senza entusiasmo. Arriviamo finalmente nel “covo”. E’ un ristorante dalle parti di San Martino in Strada. Il proprietario, Alfio, mi sommerge di tortelloni che hanno sul mio fisico un effetto euforizzante. Giorgio si accascia su una fettina e un po’ di Sangiovese. Ci fermiamo un paio di ore per consentire al vento caldo e al sole di scemare. La giornata è pesante. Guglielmo ci lascia e se ne va a Rimini. E’ sbigottito del fatto che chiediamo realmente di tornare indietro. Gli leggiamo negli occhi che il dubbio è diventato certezza. I comunisti sono proprio degli idioti. In realtà non si accorge che anche per noi è una scelta difficile. Tornare indietro e per di più farlo per ripercorrere a piedi in due ore la stessa strada fatta in dieci minuti in auto sembra anche a noi una follia. Per questo giuriamo di non farci rapire mai più. Due ore dopo siamo di nuovo davanti al ristorante di Alfio che ci accoglie con un misto di incredulità e di affetto. Giorgio scopre che è un compagno di passione cestistica. E’ amico di Oscar Eleni, una delle firme più note del giornalismo di basket italiano e ha una selva di parabole con le quali vede lo sport di tutto il mondo. Giorgio gioca a riconoscere i campioni fotografati e appesi al muro. Mayers, Fox, Rogers… per me sono saponette, per loro sono miti. Parlano di tornei di basket e di squadre tipo Vidivici, Montepaschi, Armani, Climamio come se fossero la Bellucci e la Cucinotta. Riprendiamo la strada. Giovanni è ancora con noi e con la sua bici spinta a mano. Continua a parlare. Sotto l’effetto combinato di Sangiovese e agnolotti la situazione della logorrea è peggiorata. Non tace mai. Nemmeno quando parliamo al telefono, nemmeno durante i collegamenti con Popcorner per Radio Due. Ma non basta, comincia a voler fare scherzi tipo lo sgambetto a Giorgio che già si regge in piedi per miracolo o rubare i meie sandali appesi allo zaino. Riusciamo a stento a convincerlo che nessuna delle due idee riuscirebbe a conservarlo in vita. Allora passa la racconto della sua vita, quando lavorava all’ufficio legale dell’Inps (“Non vincevamo una causa che fosse una”), quando giocava a tennis (“una fatica pazzesca”), quando ha scoperto la bici (“che bello andare in salita”). Poi ad un certo punto gli prende l’ossessione di volerci indicare la strada e di consigliarci le scorciatoie. Memori della follia da scorciatoia di Antonio noi rifiutiamo di spostarci dall’itinerario suggerito da Garmin. Ma più ci rifiutiamo più Giovanni insiste. E parla, parla, parla. Gli ultimi chilometri, con salita finale, sono veramente duri soprattutto per Giorgio che ha la febbre. Giovanni gli va vicino e gli dice: “Bè, adesso si va bene, senti che freschetto. Questa è l’ora migliore per camminare”. Giorgio abbandona i buoni propositi della democrazia partecipativa in movimento e gli dice: “Ti uccido”. Ma Giovanni continua a parlare, parlare, parlare.


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giovedì 21 giugno 2007

-17 bis- ALL’ALBA SIAM PARTITI

(da Riolo Terme a Faenza, 22 km oggi, 307 in totale, ore di cammino 66, media generale in movimento 4,6 km all’ora, paesi attraversati Cuffiano)

Ieri sera siamo andati a letto dopo aver fatto il pieno di buoni propositi. “Domani sveglia alle sette, partenza alle otto”, sentenzio io. Giorgio ricorda che deve spedire ancora tutte le fotografie a Barbara, la donna senza la quale questa nostra lunga marcetta sarebbe nota solo a noi due e a qualche parente. L’invio delle foto è una delle cose più noiose della giornata. Giorgio si piazza col suo telefonino dovunque trovi campo e comincia a mandare le foto, una dietro l’altra. Io me ne accorgo perché il suo cellulare, ogni fotografia inviata, cinguetta fastidiosamente. Mi cinguetta durante la colazione, durante la cena, cinguetta quando siamo in ascensore. Lo sento cinguettare anche quando Giorgio va al gabinetto e una volta mi sono accorto che Giorgio dormiva e il cellulare cinguettava da solo disperatamente. Barbara è il centro operativo di questa lunga marcia, il cervellone cibernetico. Mentre noi ci sollazziamo con il nostro vagabondaggio pazzeggiante, lei cura il blog www.sabellifioretti.it, questo specifico, manda le mail ai duemila iscritti, pubblica foto e post. Con un unico vantaggio, non le fanno male i piedi. Giorgio dice: “Partiremo a mezzogiorno come al solito”. Invece la paura del grande caldo ci rende saggi. Ma non sveglissimi. Scendiamo nelle sale del Golf Hotel delle Terme praticamente dormendo e finiamo nella sala riservata a una comitiva di ultracentenari o quasi. Ci viene a prendere il portiere. “No, quella è la sala dei pensionati”, dice. E Giorgio, un vero amico: “Se è per questo è pensionato pure lui. Io lo stavo solo accompagnando”. Nella sala principale l’età media scende vorticosamente. Quella che non sale è la qualità delle brioche e del latte a lunga conservazione. Ce la facciamo a partire presto. Non sono proprio le otto, diciamo che sono le nove, ma è un vero record. Non siamo mai partiti ad ore simili, nemmeno il primo giorno. Comunque fa caldo come ieri alle due. Ma si cammina meglio. E’ un caldo secco che fa sudare ma non stronca. Marciamo verso nord un po’ depressi per la sconfitta logistica, per la gigantesca sciocchezza che stavamo per compiere affrontando di petto le cento valli degli Appennini. Ma siamo anche soddisfatti di esserci accorti dell’errore quasi in tempo e di avere avuto il coraggio di tornare sulle nostre decisioni. Ma soprattutto vediamo allontanarsi per il momento le colline che ci avevano fatto soffrire ieri. Uno strappetto finale, la via Tebano, lo affrontiamo con sicurezza mista a baldanza, aiutati dal fatto che sappiamo che lo strappo è breve. Beviamo molto. Dopo tanti giorni siamo di nuovo soli anche se i vecchi amici telefonano. Telefona Antonio, l’uomo che fa delle scorciatoie la sua ragione di vita e ci dice con magnanimità che approva il nostro cambiamento di itinerario. Il fatto che lui sia d’accordo ci turba un po’. Telefona Fanti, telefona Matteo Tassinari che verrà a salutarci a Faenza, telefona Marco, ex fidanzato di Antonella di Bologna, che esprime dubbi sulle nostre decisioni. Telefona anche Antonella e ci avverte che stiamo uscendo dalla zona di sua competenza, il faentino.
Telefona Sandra, la veterinaria ufficiale di Giorgio, per complimentarsi con lui. Ha visto la foto dell’ago penetrante la pelle flaccida e plaude: “Ottimo lavoro”. Durante la marcia progettiamo l’attacco finale agli Appennini. Siamo indecisi fra la linea Uno (Forlì-Meldola-Galeata-Santa Sofia-Corniolo-Campigna e passo della Calla), la linea Due (Forlì-Meldola-Galeata-Santa Sofia-Ridracoli-Camaldoli), e la linea Tre (Forlì-Meldola-Galeata-Santa Sofia-Bagno di Romagna-passo dei Mandrioli). Poiché tutte e tre le linee passano per Santa Sofia abbiamo raggiunto l’unanimità: andremo per prima cosa a Santa Sofia. E poi si deciderà.
Nel frattempo arriviamo a Faenza, mangiamo nella splendida piazza del Popolo sotto la scritta del celebre faentino Alfredo Oriani (“accendete dunque tutte le fiaccole perché la marcia è già cominciata”): insalata e macedonia come fossimo due vegetariani. Beviamo una quantità sconsiderata di acqua minerale gasata. Scopriamo che dobbiamo fermarci a Faenza a dormire per mancanza di alberghi sulla strada ancora da fare. E così facciamo i conti. In due giorni abbiamo percorso 38 km a zigo zago e su e giù per le colline imolesi e alla fine ci troviamo semplicemente a 15 km da Imola. Ma abbiamo superato la soglia psicologica dei 300 km. Con grande orgoglio entriamo all’Hotel Vittoria e sprofondiamo i piedi nel bidet come al solito. Una delusione: la ricerca del podologo, fissazione ossessiva di Giorgio da quando siamo partiti, uno scienziato che faccia tornare i piedi di Giorgio simili a quelli degli altri esseri umani fallisce nuovamente. Io però scopro un computer collegato ad alta velocità. Giorgio sostiene che questo non aiuterà le sue tre vesciche. Io sussurro che la banda larga mi rende più felice di quanto mi rendano infelice le sue schifose vesciche. Lui nervosamente comincia a infilare aghi nei piedi. Io mi collego al blog.


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mercoledì 20 giugno 2007

-16 bis- IL MOMENTO DELLE GRANDI DECISIONI

(da Imola a Riolo Terme, km 16, km totali dalla partenza 285, ore di cammino 61, alla media di 4,6 km all'ora)

C'è una frase che Giorgio, campione mondiale di umorismo molesto, mi dice ogni volta che arriviamo esausti nell'albergo la sera. Dice: "Facciamoci una doccia e andiamo a fare due passi in paese". Io ci casco sempre e lo guardo come si guarda un pazzo pericoloso. Stasera la frase lui se la dimentica ma la dice al posto suo la signora della reception del Golf Hotel delle Terme di Riolo Terme avvertendoci che è tardi per mangiare in albergo. "Uscite, fate due passi e andate alla pizzeria "I Pini". Facciamo penosamente due passi e il proprietario della pizzeria, Luigi, ex campione di lotta greco romana, ci dice che l'itinerario che abbiamo scelto per andare a Roma è da deficienti e che moriremo tra una valle e l'altra. Facciamo come il Garmin. Ricalcolo. E piombiamo nel marasma totale in cui i nomi dei paesi presi in considerazione per la traversata dell'Appennino, Fiumicello, Brisighella, Tredozio, Modigliana, Rocca San Casciano, Portico di Romagna, Corniolo, Premilcuore, Dicomano, Galeata, si mischiano, si rimettono in fila, si sommano, si scompongono. Confusione totale. Passiamo tutto il tempo della cena tentando di rimettere ordine ma la situazione è complessa. Siamo ancora sotto choc per la tappa di oggi, chilometraggio tutto sommato limitato ma fatica pazzesca dovuta alle prime salite e al caldo impossibile. Siamo partiti infatti, come al solito, quasi a mezzogiorno, continuando a contravvenire alla regola di partire quando fa fresco e fermarsi quando fa caldo. Noi siamo sempre riusciti, finora, a partire quando fa caldo e fermarci quando fa fresco. E' stato quasi un vezzo, finora, perché il caldo non era vero caldo e il freddo non era vero freddo. Ma oggi si abbattono su di noi 35 gradi e capiamo che non si può più scherzare col fuoco. Partiamo da Imola, senza Marco Ardemagni. Ci dispiace che non abbia potuto continuare con noi e credo che dispiaccia anche a lui. Infatti è presente in spirito e si è autonominato unità di crisi. Come prima cosa ci manda nomi e numeri di telefono di tutti i paesi che potremmo incontrare nella traversata degli Appennini. Un gesto da vero amico preoccupato per il pressappochismo che ci guida e che ha potuto verificare sul campo. Con noi parte per Riolo Terme Antonio, quello del negozio di ortopedia, che ha portato con sé anche Corradino e Bibìta, due caterpilleriani, e la cagnetta Andrea. Antonio comincia alla grande, ci fa passare per il vecchio manicomio, una struttura enorme che diventerà un centro residenziale e culturale ridisegnato da Gae Aulenti. Attraversiamo anche l'autodromo, altra opera in via di rifacimento. Costeggiamo la curva in cui è morto Ayrton Senna, uscendo di pista a 300 all'ora. Noi, con le nostre magliette rosso Ferrari, con su il cartello di velocità massima cinque km all'ora, sembriamo ridicoli. Nel tempo che impieghiamo ad attraversare l'autodromo i bolidi di Formula Uno farebbero oltre trenta giri. Antonio è un fanatico del taglio. La scorciatoia è la sua ragione di vita. Ci fa passare per campi, scavalcando reti metalliche, saltando fossi, superando siepi spinose. All'inizio ne rimaniamo affascinati e soprattutto crediamo ciecamente in tutto ciò che dice. Avremmo dovuto capire prima i rischi dell'operazione anche per il fatto che il suo unico documento cartografico era una foto satellitare della zona sulla quale aveva disegnato con una biro rossa il percorso. E quando Corradino e il Bibìta ci raccontano che una volta, quando faceva la guida, aveva perso un'intera scolaresca nella nebbia, la prendiamo come una boutade. Ma Antonio è veramente simpatico. Lo seguiamo prima in una cantina dove ci accoglie Bruno seminudo. Non riusciamo a capire se indossa un costume da bagno o semplicemente le mutande. Ci offre un cabernet che contribuisce alla nostra decomposizione a trenta gradi all'ombra. Poi, sempre per prati, ci perdiamo nelle prime propaggini delle colline imolesi. Non ci rendiamo conto di che cosa ci aspetti. Sarà un calvario, tutti i ristoranti chiusi come da tradizione della "lunga marcetta", un'azienda che ci rifiuta un minimo di ristoro (ma si chiama Tremonti e siamo quasi contenti), Antonio che insiste per farci tagliare per i campi anche quando si tratta di affrontare salite impervie tra i filari delle viti. Per il mangiare ce la caviamo rubando albicocche, fichi e pesche ancora acerbe. Per il bere è più dura. Un contadino ci aiuta aprendoci il suo pozzo di 15 metri di profondità. Ma quando il secchio torna in superficie la faccenda si complica. Vediamo che il contadino si arrabatta con il mestolo. "Ma quante simpatiche formichine", dice Corradino, bevendo insieme al Bibìta e ad Antonio l'acqua freschissima. Vedo Giorgio titubante. "Che mi dite di questi allegri vermetti bianchi?" dico io. Il contadino spiega: "Questa è l'acqua che beviamo". Io e Giorgio non la beviamo. Ci limitiamo a spargerci addosso acqua, vermetti e formichine come fosse Chanel numero cinque ma decidiamo di preferire la sete al colera. E intanto lanciamo la scommessa. Giorgio che è un esperto frequentatore di www.unibet.com dà le quotazioni. Il cagotto di Corradino viene dato alla pari. Quello di Andrea, in quanto cane, ha una quotazione leggermente più alta. Resta il problema dell'itinerario. Ce la caviamo esautorando Antonio e ridando il comando al Garmin. E a quattro ore dalla partenza arriviamo al Golf Hotel delle Terme, l'unico Golf Hotel delle Terme che io abbia mai visto senza Golf e senza Terme. "Il golf è a due km e le terme sono a un km", ci dicono. "Vabbé, così sono capaci tutti", commenta Giorgio. La sera al ristorante scoppia il bubbone Appennini. Alla fine ci convinciamo che abbiamo sbagliato tutto. Ma ci secca ammetterlo e la regola dice che tornare indietro non si può. Decidiamo di scendere di nuovo sull'Emilia, a Faenza, puntare su Forlì e poi salire. La scelta ideologica della "retta via" ne esce un po' sconvolta. Siamo una trentina di km fuori rotta. Giorgio comincia a straparlare di bolina, di layline, di orzare, di poggiare, di strambare. E alla fine mi arrendo Così le probabilità di sopravvivere aumentano a dismisura e andiamo a letto sereni. Prendendo come tutte le sere la decisione di partire alle otto. Sono due settimane che andiamo a letto dicendo: "Sveglia alle sette, partenza alle otto". E poi partiamo a mezzogiorno.

Anche lasciare Luigi ci dispiace. Sembra quasi che ci innamoriamo di tutte le persone che incontriamo sul percorso e che incuriosite, si fermano a parlare con noi. Sono tutte brave, buone e simpatiche oppure siamo noi ben disposti? Luigi ci ha raccontato un po' di Riolo, città termale un po' delabrée. "Avevamo 5 mila posti letto e adesso non sono nemmeno mille", dice Luigi. E ci racconta di Loris Capirossi (le sue tute sono appese alla parete del ristorante) e di Gustavo Selva, i due illustri cittadini. Di Selva ci racconta anche un episodio inquietante. Sono passati solo sette giorni da quando il senatore di An, dopo aver confessato di aver finto un malore per poter uscire con un'ambulanza dal centro bloccato al traffico per la presenza di Bush, ha dato le dimissioni. Ma Luigi ci racconta che dieci giorni fa un suo amici autista di autoambulanza è andato a prenderlo nella sua casa di Riolo perché Gustavo stava male. Vorrà dire qualcosa questa coincidenza? E sarà una coincidenza oppure Gustavo ha scoperto che un'altra mobilità è possibile? Ripensando alla giornata di oggi mi viene in mente che l'ambulanza in fondo poteva essere una buona soluzione.

Oggi ci hanno telefonato Barbara, una cavallerizza che vorrebbe raggiungerci venerdi, senza cavallo, e Toni Capuozzo che sta presentando il suo libro a Forlì. Forse lo vedremo giovedì. Oggi abbiamo fatto il secondo collegamento con Francesco Adinolfi (Popcorner, Radio due, ore 18)


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martedì 19 giugno 2007

-15 bis- UNA GIORNATA CON MARCO ARDEMAGNI

(da Medicina a Imola, 28 km oggi, totale 269,40 km, media generale in movimento 4,6 km all'ora, totale ore camminate 58, paesi incontrati Castel Guelfo, Casola Canina).

Marco arriva di prima mattina. E' andato a letto alle tre di notte, si è svegliato alle 6,30. E' partito alle 6,58 da Milano. Si è fermato a dormire mezzora all'autogrill di Fiorenzuola. E' arrivato da noi alle 10, 30.

Marco Ardemagni, l'uomo sempre in bilico tra Catersport e Caterpillar, ultraquarantenne, una moglie, Piera, una figlia, Marta, erre moscia marcata, allergia costante che lo fa apparire in perenne raffreddore, dalla chiacchiera travolgente, una battuta dietro l'altra, spesso stupenda, sempre a buon livello, si presenta da noi con zainetto bianco e nero di Sergio Tacchini con spallaccio unico trasversale tipico delle signore bene milanesi, scarpine da danza classica ("Le ho prese perché pesano solo 30 grammi"), pantaloni di velluto che fanno sudare solo a guardarli, felpa ("Non ho visto il meteo, che dici, la felpa la lascio in macchina?"). I pantaloni di velluto gli vengono estirpati subito e lui li sostituisce con un costume da bagno boxer blu elettrico con la mutandine di rete interna. Basteranno pochi km per fargli esclamare: "Ho le palle bollenti".

Marco si inserisce perfettamente nella dinamica di coppia (di fatto) instaurata fra me e Giorgio, molto rispettoso del raffinato equilibrio che abbiamo raggiunto dopo 240 km di marcia. Ad un bivio, di fronte all'ennesima diversità di opinioni tra le mie cartine e il Garmin di Giorgio, guardiamo Marco come quando si cerca l'arbitrato della persona superpartes. Lui dice, imbarazzato: "Non guardate me, non voglio inserirmi tra voi, ho visto che andate così d'accordo, che riuscite a trovare sempre il punto di sintesi". Ci mancava che dicesse: "Tra moglie e marito non mettere il dito. Siete una così gran bella coppia…"

Marco si rivela un grande marciatore. Nel pomeriggio, preso da quello che viene chiamato il "delirio del maratoneta", ci annuncia che la sera tornerà a Medicina a prendere la macchina a piedi, in leggera corsa. "Purché mi teniate la zainetto". Non servono le prese per il culo a farlo desistere, almeno a parole. Tornerà in taxi.

Sandra, la veterinaria che è accorsa a Medicina al capezzale delle vecchie e nuove vesciche di Giorgio, fa colazione con noi. Giorgio tenta di farle vedere i suoi piedini straziati. Ma Sandra gli dà il consiglio definitivo. Ago e filo per fare spurgare la piaga. Il consiglio della nonna, quello solito. Ancora una volta Giorgio si opera da solo. Continuano le mail e gli sms e le telefonate con i consigli degli amici su come affrontare il problema vesciche. Evidentemente la vescica è la metafora della vita ansiosa e stressante. Si gonfia e si sgonfia, si spurga e si secca. E, come la vita, non ha una soluzione unica. Arriva anche la protesta di Federica, veterinaria di Milano. "Che cosa ha Sandra che io non ho?" Sono costretto a prometterle la prossima vescica di Giorgio.

La mattina di Medicina comincia con la ricerca delle cartine dei sentieri degli Appennini che dovremo affrontare a giorni. Gli Appennini mi ossessionano. Giorgio sembra fregarsene ma io compro tutta la pubblicistica disponibile sul mercato appesantendo i nostri zaini notevolmente. Troverò il massimo della documentazione ad Imola. Ma Imola ci riserverà anche una bellissima sorpresa. Giorgio, da qualche tempo, ha smesso di provare attrazione per le farmacie. Però si ferma incantato davanti a tutte le scritte tipo "podologo" "ortopedia sanitaria" "callista" e roba del genere. Ad Imola, perso nel centro alla ricerca di stanze libere, supererà senza accorgersene una vetrina piena di plantari, di creme, stampelle e corpetti. Mi dirà poi: "E' stata una sensazione strana. Ho superato distrattamente la vetrina ma una forza misteriosa mi ha riportato indietro. Sono entrato nel negozio. Antonio mi è venuto incontro e mi ha detto: "Ma tu sei Giorgio Lauro. Quello con le vesciche". E' stato un attimo. Ho capito che Antonio era l'uomo del destino". Le vesciche non gliele curerà ma si offrirà di accompagnarci nella tappa successiva, Imola-Riolo, dopo averci distrutto nel morale avvertendoci che abbiamo fatto da Medicina il doppio dei km necessari. Per quanto riguarda le vesciche aggiungerà una nuova cura all'infinita collezione di consigli. "Mercuriocromo. Ti serve quello. Apri la vescica e versa. Brucerà da matti ma poi te la secca. E non sentirai più niente".

L'arrivo di Marco porta una novità, un Garmin da automobile, una cosa un po' borghese che parla addirittura spagnolo e si mette subito in concorrenza col Garmin un po' rustico, da battaglia, genuino di Giorgio. Le scene in cui Giorgio interroga il suo Garmin e sputa in faccia al Garmin di Marco gli itinerari consigliati e il Garmin di Marco, con fare cittadino, gli spiega in spagnolo che è tutto sbagliato si susseguono ad ogni bivio. Il massimo della tensione tra i due Garmin si raggiunge a qualche km da Castel Guelfo. "Destra", segna il Garmin Giorgio. "Izquierda", proclama Garmin Marco. Per dovere di ospitalità andiamo a sinistra ma alla fine il Garmin di Giorgio ha il sopravvento. Quello di Marco si accascia e dichiara sconsolato: "Non ho più collegamento coi satelliti". Che per un navigatore satellitare non è difetto da poco.

Alla periferia di Castel Guelfo troviamo la Locanda di Agnese. Dice il cartello: "Piatti tipici e non". Marco insiste per fermarci qui. "Vorrei tanto assaggiare un piatto "e non"".

Si decide di magiare più avanti. Percorriamo il lungo rettilineo verso il centro di Castel Guelfo, incrociando via Aldo Moro, via Guido Rossa, via Walter Tobagi, via Alessandrini, via Nicola Calipari. Un po' depressi arriviamo nel paese dove ci accoglie la prima piadina e anche Silvia, operatrice giardiniera con sua figlia Emma di nove mesi. Silvia ci è venuta incontro da Modena col suo camion dove aveva caricato una grossa tinozza piena di acqua fredda per i nostri piedi.

Il caldo è tanto e anche l'umidità. Contravvenendo alle regole che ci siamo dati facciamo una piccola deviazione di duecento metri per raggiungere una fontanella. Ormai io ho preso l'abitudine di fare i microlavaggi ai piedi. Sono stupendi, ricaricano le gambe ormai esauste e danno loro una nuova autonomia. Giorgio resiste, soprattutto perché ha timore di vedere che sotto i calzini la situazione è degenerata.

Passiamo un'altra barriera psicologica, l'autostrada A14, incontriamo il primo pitbull allo stato libero, troviamo il primo albergo che ci respinge con la scusa del tutto esaurito (si chiama Albergo Moderno, che sia maledetto), incontriamo Maria Antonietta, pianista, amica di Marco che in maniera caotica ci racconta la sua complicata vita sparsa tra Berlino, Parigi, Milano e Imola. Io e Giorgio non capiamo nulla di quello che Maria Antonietta, la pianista, dice. La stanchezza vince anche sul galateo. Maria Antonietta parla, parla, parla seduta al tavolo dell'osteria insiema ad Antonio e alla sua morosa Caterina. Giorgio fa segno di si. Io dormo.

Ci hanno telefonato Antonella, la proprietaria del bed and breakfast con piscina di Aguscello e Danilo di Selva Malvezzi. Ormai sono dei nostri. Non riescono a dimenticarci. Abbiamo cambiato la loro vita. Ma neanche noi riusciamo a dimenticarli. Marco ci lascia. Qualche ora dopo ci telefona. "Andate tranquilli, cercherò io per voi le migliori strade appenniniche", dice. Giorgio risponde: "Non mandarci il solito foglio Excel".


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