domenica 8 luglio 2007

-33bis- CIOCCOLATO, NOCCIOLA E PANNA MONTATA

(da Viterbo a Vetralla, oggi 25 km, in totale 659 km, definitivi)

Emozione dell'ultimo giorno. Per la grande giornata che ci consegnerà alla storia delle imprese inutili e imbecilli saranno con noi anche due personaggi storici del blog, Barbara Melotti e Luca di Ciaccio. Quando si tratta di imprese inutili e imbecilli non vogliono mancare. Barbara è arrivata ieri sera nell'agriturismo dove abbiamo passato la notte. Luca ci intercetterà lungo il percorso. Marceranno con i magnifici quattro. Oltre a me e a Giorgio si sono sempre Paolo, la cambusa vivente di Padova e Franco, il gigante buono di Cura di Vetralla. Paolo, per la prima volta, non prepara il pranzo. Ci verrà incontro, con le vettovaglie, Angela, la moglie di Franco. Nonostante la presenza di Barbara, nota logorroica confessa, la giornata è silenziosa. Di quelle tipo cammina e taci. L'arrivo non rende euforici. Diceva Sepulveda – ricordate?- che alla meta si arriva cantando o non ci arriva nessuno. Ma questa non è la nostra meta. La meta è sempre stato il viaggio. E durante il viaggio abbiamo "cantato" molto.

In silenzio percorriamo la periferia di Viterbo, intercettiamo Luca che scende da un taxi, immagine singolare, poco attinente alla lunga marcetta. Tutti e sei attraversiamo allegramente Viterbo, città bellissima, piena di chiese e di fontane. Compriamo i giornali locali. Daranno la notizia del nostro attivo? No. Non gliene frega giustamente niente a nessuno. Ma Cura di Vetralla è nelle locandine. "Emergenza pulci a Cura di Vetralla". Non ci faccio una bella figura. A Viterbo entriamo da Porta Fiorentina e usciamo da Porta San Pietro. E di nuovo Cassia. Al Bullicame ci aspetta Angela, la moglie di Franco. E adesso devo spiegarvi che cosa è il Bullicame. E' una sorgente di acqua sulfurea bollente. Nel Lazio ce ne sono molte. Un'associazione ne ha presa la gestione, ha costruito una piscina, una doccia, un'altra piccola vasca con acqua miscelata, tiene il sito in ordine, ha seminato un bellissimo prato, ha costruito qualche piccolo gazebo. Un luogo incantevole. Sembra che il bagno nella bassa piscina sia un toccasana per le membra stanche, per i dolori muscolari e articolari. Io e Giorgio ci buttiamo subito e facciamo una lunga passeggiata, avanti e indietro, nella piscinetta. Ci sentiamo un po' imbecilli, tra belle ragazze in bikini e giovani aitanti palestrati. Noi, con le nostre mutande che facciamo finta siano costumi da bagno. Abbiamo l'impressione di avere gli occhi di tutti addosso. Poi ci buttiamo sul pane e prosciutto portato da Angela, strappando tempo alla sua attività preferita, la cura del rifugio dove vengono ospitati cani trovatelli e malandati. L'impressione è che anche a noi si dedichi come si dedica ai suoi amati randagi.

Si riparte dal Bullicame con una sorpresa. Barbara non ce la fa più e sale sulla macchina di Angela. Ecco perché taceva. Soffriva sotto il sole cocente. Dice: "Siete stati dei matti a mettervi in una impresa del genere". E parte per Cura di Vetralla su quattro ruote. E' un brutto giorno per il movimento femminile internazionale. Dopo la defezione da vescica di Arianna, ecco la defezione da insolazione di Barbara. Orrende battute antifemministe da parte nostra accompagnano l'evento che prova in maniera definitiva l'inferiorità della donna. Paola, Daniela, Elena, Carla e Antonella, le altre cinque esponenti del sesso debole leggeranno queste note con riprovazione e con orgoglio. Loro, al contrario di Arianna e Barbara, ce l'hanno fatta.

Il resto della tappa è senza storia. Arriviamo inevitabilmente a Vetralla. Percorriamo la sua via centrale fermandoci continuamente alla tante fontane e fontanelle. Non abbiamo mai visto tanta acqua come oggi. Giorgio si rivolge a tutte le vecchiette sedute sulla soglia delle loro case urlando: "E' tornato a Vetralla Claudio Sabelli Fioretti. Ve lo ricordate? Andò via nel 1944". Le vecchiette ridono. Puntiamo sulla frazione Cura. Passiamo davanti al cimitero dove è sepolto mio padre. Passiamo davanti alla casa di Franco. Ed è il rettilineo finale. Dopo 659 km e 32 giorni arriviamo nella piazza principale di Cura, davanti al bar Cancellieri, dove ho consumato i migliori gelati (cioccolato, nocciola e panna montata) della mia fanciullezza. Ci aspettano le autorità, il sindaco Massimo Marconi e l'assessore Luca Mancini, autori di una rivoluzione politica che ha portato Margherita e Forza Italia a governare insieme. Cura di Vetralla, laboratorio politico, indica la strada. Il Partito Democratico trema. Insieme a loro un drappello di nullafacenti come noi e la curiosità della gente che la domenica frequenta la piazza. Finalmente qualche intervista per questi strani e anacronistici personaggi vestiti con una maglietta con un grande cinque sul petto. Festeggiamenti. Champagne e cocomero. E una mega coppa di gelato, cioccolato, nocciola e panna montata.


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sabato 7 luglio 2007

-32 bis -ALLA META SI ARRIVA TACENDO.

(da Bolsena a Viterbo, 25 km oggi per un totale di 634 km alla media di 4,6 km all’ora, ore camminate 137, paesi attraversati Montefiascone e Zepponami)

Ma quanti ci avevano detto che non ce l’avremmo fatta? Stavamo mettendo in cantiere un evento che più imbecille non ci può essere e gli amici preferivano dirci che sarebbe stato un fallimento piuttosto che chiederci se non avessimo niente di meglio da fare. E invece no, tiè, siamo a Viterbo, siamo a venti km da Cura di Vetralla, ce l’abbiamo quasi fatta. Giorgio è più prudente di me. Teme la vescica dell’ultima ora, quella tremenda, quella che lo costringe a mettersi in strada anche a costo di farsi male. E quindi parla meno dell’argomento. Il bicchiere mezzo vuoto. Il mio bicchiere mezzo pieno dice invece che ormai è finita, che come al Tour de France per noi domani è la passerella finale verso les Champs Elisées. Luca Mancini, l’assessore al turismo di Vetralla ci telefona e ci avverte che in piazza, alla Cura, davanti alla chiesa e al celebre Bar Cancellieri, ci aspetterà davanti ad un banchetto per un rinfresco. Gli urlo: “Cocomeri!” E cocomeri saranno. Sarà contenta Fulvia di Genova che da tempo mi ha consigliato cocomeri per la mia ritenzione idrica.
Ci lascia Arianna. Quando scendiamo per fare colazione troviamo anche Chris, il suo fidanzato inglese, che è stato svegliato nella notte e si è precipitato. E’ venuto a prenderla commosso dalla telefonata di richiesta di aiuto. Arianna ha tentato di sistemare le sue vesciche ma non ha fatto nulla di ciò che le abbiamo consigliato. Arianna è “de coccio”, come dicono qui nel Lazio. Ieri ha fatto tutto quello che non deve fare una camminatrice e si è beccata le vesciche. Poi non ha seguito i nostri consigli, sgonfiare le bolle, togliere la pelle morta e appiccicare il Compeed, la seconda pelle artificiale. “Non ce l’ho fatta”, dice mostrando il megabubbone che ha dalle parti dell’alluce. “Ma come”, le dico, “hai a disposizione i due più grandi esperti di vesciche del centro-nord e non segui i loro consigli?”.
La sua vescica è gigantesca. Non è un piede con una vescica. E’ una vescica con un piede. Il risultato è la resa senza condizioni. Quando ci aveva detto che avrebbe voluto marciare con noi per tre giorni avevamo accolto la dichiarazione con un sorrisetto, proprio perché le vogliamo bene. Ma non avremmo mai creduto ad un abbandono così veloce e ignominioso. “Forse se avessi parlato un po’ di meno non ti sarebbe successo”, cerco di consolarla. Lei sale sulla macchina e torna a Perugia.
Davanti a una colazione insufficiente (niente succo di pompelmo e niente latte fresco) in uno stanzone che Giorgio definisce una grande sala da albergo romagnolo, pianifichiamo gli ultimi giorni, che potrebbero essere due o anche tre. Franco, che ormai si comporta da padrone di casa, ci dà la notizia fondamentale, mancano 46 km. Parte il dibattito. Io, che due giorni fa volevo fare 30 km al giorno, adesso sostengo la tesi bisogna rallentare e spalmare il chilometraggio mancante su tre giorni. Giorgio che era inorridito di fronte ai miei progetti, adesso vuole correre come un matto e farla finita in due giorni. Le motivazioni sono quelle di due giorni fa, ma invertite. Ognuno si impadronisce delle vecchie opinioni dell’altro e le fa sue. Alla fine vinco io. O meglio vince Giorgio che sostiene quello che io sostenevo due giorni fa. Giorgio sostiene che avevo ragione e non demorde nemmeno quando io sostengo che avevo torto. Sostiene, Giorgio, che era lui che aveva torto e che io sono uno stronzo perché non voglio riconoscere che avevo ragione. “Sei un venduto. Non ne posso più di voi riformisti”, dice Giorgio il quale quando non trova il succo di pompelmo diventa intrattabile. Non ne posso più. “Va bene, cedo, facciamo quello che volevo io”.
E partiamo, con l’obbiettivo di arrivare a Cura in due giorni. Come ho sempre sostenuto. Prima di cambiare idea.
Con un certo senso di nostalgia lasciamo l’albergo “I platani”, detto anche il “Moderno”. Ci sfugge il senso della sua modernità. Ieri sera però abbiamo capito in che cosa è avanti, quando rientrando dalla cena ci infiliamo nell’ascensore che non parte. Arriva la proprietaria. Le chiedo: “Ma l’ascensore è rotto?” “No, un attimo che lo accendo”. E gira un interruttore nascosto. Ecco, alzi la mano chi di voi ha mai incontrato nella sua vita un ascensore che si accende e si spegne. Taccagneria o sviluppo compatibile? Braccino corto o comportamento etico e responsabile?
Partita Arianna e con lei la sua allegria molesta, la sua chiacchiera inarrestabile, ci ritroviamo sulla Cassia, in fila indiana come non siamo mai stati, io davanti, poi Franco, poi Giorgio, poi Paolo più traballante del solito. Zitti, testa bassa, sudore colante. Un solo obbiettivo. Andare, andare, andare. L’asfalto è bollente. E’ sabato, fioriscono le moto, quelle che fanno vroom vroom vroom e piegano in curva e ti sfiorano in un continuo svicolare fra le macchine che mette paura. Mettono paura anche tutte le auto con i fiocchetti bianchi. Cos’è oggi questa mania di sposarsi? Lo scopriamo subito. E’ una data magica, 07-07-07. Sembra che in Egitto sia figo sposarsi in questa data simmetrica. Che cosa c’entri Bolsena con l’Egitto ci sfugge. Ogni tanto qualche cartello ricorda che siamo sulla Francigena, la strada che fa il verso al camino de Santiago de Compostela e parte da Canterbury per arrivare a Roma. Ma Cassia e Francigena non vanno sempre d’accordo. Ogni tanto si lasciano, ogni tanto si rimettono insieme. Noi ce ne freghiamo e seguiamo la Franchigena, cioè la via che ci indica Franco.
Zitti, testa bassa, sudore colante. Secondo me è la realtà che ci riacchiappa. Sono i pensieri di tutti i giorni che riprendono possesso della nostra quotidianità. E’ il domani che riconquista il suo solito posto. I ritmi lenti che l’hanno fatta da padrone per trenta giorni, capiscono che stanno tornando i giorni difficili. Secondo Giorgio, invece, stiamo perdendo la dimensione del viaggio senza tempo. L’arrivo, presenza silenziosa finora, è diventato un compagno di viaggio assordante. “Stando zitti abbiamo la sensazione di arrivare prima”, dice. “Manca la profondità : quando stavamo a Schio non vedevamo l’arrivo e non riuscivamo nemmeno ad immaginarlo”. Anche in questo caso sono convinto di avere ragione io. Però le cose che dice Giorgio mi sembrano più zen e mi viene la voglia di cambiare idea anche stavolta. Ma quando mi accorgo che anche lui sta avendo lo stesso pensiero, mi astengo.
Non c’è che il rettifilo per cambiare l’animo umano. Ma i rettifili della Cassia verso Viterbo hanno un potere straordinario. Con l’aiuto del caldo riescono a convincere due normalissimi camminatori che sono diventati dei filosofi del viaggio in grado di pontificare
su mobilità, sosta, viaggio interiore e cose del genere. Io mi sono sciroppato tutto il libro di Duccio Demetrio, “Filosofia del camminare”. E lo rovescio in una botta sola su Giorgio. Ma quando arrivo alla citazione dotta, “I piedi sono importanti, hanno una storia e vanno elogiati”, Giorgio ha un sussulto di orgoglio. “Non ho mai letto Demetrio ma dal male che mi fanno avevo capito da solo che i miei piedi sono importantissimi”.
Siamo nel territorio di Franco, il gigante buono di Cura di Vetralla, il Lothar della lunga marcetta. E’ lui che ci guida fuori dal cratere del lago di Bolsena, ci conduce sulla scorciatoia che ci fa salire a Montefiascone, ci indica il baretto dove fermarci a mangiare, ci fa conoscere due pappagalli che parlano ma non una lingua comprensibile, ci trova l’agriturismo “Antica Sosta” all’altezza della Fiera di Viterbo. Ottima cosa perché ormai viaggiamo a vista, senza cartine e quasi senza Garmin.
Io sono tornato ai miei adorati scarponi. La tendinite è scomparsa e decido di non usare più i sandali Birkenstock che mi hanno causato qualche dolore alle dita e un paio di vesciche. Rimettere i piedi dentro gli accoglienti, fascianti Salomon è piacevolissimo. Come se i piedi tornassero nel grembo materno. Demetrio, che la sa lunga, direbbe: “I piedi sono importanti”.
Con la testa piegata verso il basso, Giorgio mi chiede se ho notato qualcosa. Io non ho notato niente. Ma lui insiste. “Non vedi che da quando siamo nel Lazio il paesaggio è cambiato?” Io non lo vedo. Ma lui vede giardini un po’ trascurati, fossi non rasati, alberi non potati, cartelloni pubblicitari abbandonati. “Ma che fai? Rimpiangi i robottini che falciavano l’erba delle villette del Nord-Est? Non sarà il solito razzismo d’accatto contro il disordine del Sud? “No, non è il solito razzismo d’accatto contro il disordine del Sud”, spiega. “E’ una constatazione amichevole. Non faccio del moralismo. Non c’è il Nord pulito e il Sud sporco. Però il Nord che abbiamo attraversato era pulito e questo Sud è sporco”. “Giorgio qui non siamo nel Sud”, dico io tanto per dire qualcosa anche senza senso. E Giorgio, che quando ci si mette non molla la presa: “Allora il Nord è pulito e il Centro è sporco”.
Ormai è sera. Arriva da Roma Barbara Melotti, detta Melba, la nostra centrale operativa. La donna che cura il blog in mia assenza, che pubblica le foto e i video della marcetta e che manda la newsletter alla mailing list. Farà l’ultima tappa, insieme a noi quattro ad Angela, la moglie del gigante buono e a Luca Di Ciaccio. La guardo e penso ma adesso chi farà tutte queste cose? Lei mi legge nel pensiero e dice:”Tu”.


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venerdì 6 luglio 2007

-31 bis- E POI CHE COSA FAREMO?

(da Allerona Scalo, località Le Prese, a Bolsena, 29 km oggi per un totale di 609 km alla media di 4,6 km all’ora, ore camminate 132, paesi attraversati Monte Rubiaglio, Castel Viscardo, Castel Giorgio) - (ndr. ricevuto alle ore 3,32 del giorno 7)

Ci sono colazioni e colazioni. Alberghi che ci hanno sommersi di marmellatine e di torte. Brioche fresche e succhi di frutta di ogni tipo. Quasi sempre Giorgio è riuscito ad ottenere il suo inderogabile succo di pompelmo anche se mai della sua marca preferita, Jaffa. Anche io ho una fissazione, il latte fresco, che dovrebbe essere la regola, almeno negli agriturismi. Ma ho avuto meno fortuna. Mi è stato sempre offerto latte a lunga conservazione che per me ha lo stesso appeal di una bastonata sulle vesciche. E così mentre Giorgio si beve il suo pompelmo io mi faccio portare un tè. Per quanto riguarda le marmellate, siamo andati dalle porzioncine standardizzate con i disegnetti sulla carta stagnola, tipiche degli alberghi, ai vasetti traboccanti delle confetture fatte in casa dalla nonna. Anche sulle brioche nessuna sorpresa molto positiva. Ma oggi, al bed and breakfast San Antonio, bellissima vista sugli Appennini, sulla valle del Paglia e sulla direttissima Roma-Firenze, appartamenti semilussuosi, grande piscina, sperimentiamo per la prima volta la colazione senza marmellata e con brioche confezionate. Tutto questo discorso è arabo per Paolo il quale stamattina, come tutte le mattine, sull’esempio di un perfetto gentleman inglese, si spara un bicchiere di vino bianco e un paninazzo con mortadella.
La tappa molto dura di ieri non è stata ancora ben digerita dai nostri corpi. Io ho dormito male, rivoltandomi continuamente nel lettone, con le piante dei piedi doloranti, con i muscoli delle cosce, indolenziti. Giorgio ha dormito bene ma per combattere i milioni di moscerini che si erano passati la voce, ha messo in azione la macchinetta antizanzare e si è beccato un fastidioso mal di gola. Alle cinque io decido di affrontare con virilità le mie gambe e comincio a spalmare creme e a massaggiarmi. Quasi alla stessa ora Giorgio decide che si arrende ai moscerini e spegne la macchinetta killer. I moscerini ringraziano e il mal di gola scompare.
Non è una coppia di atleti in gran forma e dal fisico tonico e scattante quella che parte dal podere Sant’Antonio, insieme al fedelissimo Paolo (ormai con noi da una settimana con i suoi piedi luganega). Oggi c’è anche un grande ritorno, Franco, il gigante buono di Cura di Vetralla, l’esperto di trattori finlandesi, il Lothar della lunga marcetta che è stato già con noi da Camaldoli alla Val di Chiana. E poi c’è una new entry, Arianna, l’organizzatrice del Festival del Giornalismo di Perugia.
Ridiscendiamo l’orrida salita che ieri, di sera, ci aveva fatto tanto penare. Lo facciamo con un minimo di baldanza anche perché Arianna, dimostrando entusiasmo e inesperienza, parte a razzo, nonostante si sia presentata con una maglietta autoprodotta con su scritto “5 km all’ora, scarsi”. Noi, maschietti, non possiamo darle la soddisfazione di staccarci anche se sappiamo che la maldestra pagherà. E infatti pagherà con una grossa vescica sotto la pianta del piede destro dalle parti dell’alluce e un’altra più piccola sotto il piede sinistro che menomerà la sua azione e deprimerà il suo spirito tanto da farle mandare un messaggio al fidanzato perché la venga a riprendere. Battute sulla superiorità maschile a josa.
Saliamo, inseguendo la prode Arianna, verso Castel Viscardo, prima, e Castel Giorgio, poi, seguendo il sentiero del Cai. O quelli che noi siamo indotti a pensare che siano sentieri del Cai. La cartina in nostro possesso li segnala come “sentieri realizzati dalla Comunità Montana Monte Peglia e Selva di Meana secondo gli standard del Club Alpino Italiano” sono dei veri e propri trabocchetti. Sono del Cai? Forse no, sono solo gli standard che appartengono al Cai. Ma perché allora si parla di Cai? Insomma, come avrete capito, Cai o non Cai (ad ogni errore scatta la battuta stupida “è un sentiero del Cai!”), verso Castel Giorgio finiamo su una specie di superstrada e più tardi, quando la fine della tappa dovrebbe essere vicina, sprofondiamo in un segnavia bianco e rosso “4g” che ci abbandona in continuazione e ci consegna a tutt’altro territorio rispetto a quello previsto. La cosa non è grave perché vediamo il lago di Bolsena, è lì davanti a noi, ma raggiungerlo non ci risulta facile come sembrerebbe.
Ci viene in soccorso l’austriaco Werner. Uno smacco. Ci fermiamo nel giardino di una casetta, unica costruzione in questa zona che appare disabitata. La casetta è un incrocio tra l’abitazione di Biancaneve e un rifugio di montagna. E’ chiusa. Stanchi decidiamo di far fuori il melone che Paolo si trascina dietro da due giorni. Sul più bello, però, arriva il padrone di casa, Werner per l’appunto, austriaco di Graz, pittore e scultore. Werner non si arrabbia per l’invasione. Anzi ci offre una bottiglia di vino bianco e dei crackers. E ci spiega dove abbiamo sbagliato strada e qual è quella giusta per raggiungere Bolsena.
Oggi le abbiamo sbagliate tutte. Siamo partiti senza provvigioni per il pranzo, sperando di comprarle a Castel Viscardo. Poi abbiamo fallito Castel Viscardo e abbiamo dovuto aspettare fino alle tre per trovare un bar a Castel Giorgio. A Castel Giorgio abbiamo tardato molto facendo inutilmente mille telefonate per trovare da dormire. Trovare da dormire non è mai stato tanto facile finora. I bed and breakfast e gli agriturismo sono meno frequenti di quanto si pensi negli itinerari secondari che percorriamo, difficili da raggiungre a piedi e mal propagandati. Gli uffici turistici ne ignorano la metà e non ti sanno spiegare dove sono. Alla fine, la scelta di Bolsena, non proprio sulla linea perfetta, ci è apparsa l’unica praticabile. Nel bar Asterix di Castel Giorgio la fame ci spinge verso qualsiasi ignominia. Da Franco che si mangia una quantità industriale di toast, a me che preso non si sa da quale raptus, chiedo una cotoletta alla milanese. Il tutto sotto una cascata di birra fredda che inonda le persone normali tranne Giorgio che sostituisce inspiegabilmente le sue solite Fanta con due “multivitaminic”.
La novizia Arianna si comporta veramente da novizia. Non solo corre ma parla sempre. E’ napoletana, quindi divertente, ci tiene compagnia e quando esagera, noi che siamo due maleducati, socialmente scorretti, la prendiamo in giro con battute al limite della fascia protetta. Lei si mette a ridere e se ne frega.
Arriviamo a Bolsena che è quasi buio. A cena guardiamo la cartina e ci accorgiamo che ormai è fatta. Dovrebbero mancare 46 km. In condizioni normali diremmo: domenica siamo a Cura di Vetralla. Ma i km fatti che appesantiscono le nostre gambe ci hanno abituati alla prudenza e ad un certo pessimismo. Oggi abbiamo superato i 600 km percorsi. A piedi. Abbiamo festeggiato con uno stupido video alla maniera di Italia 1. Abbiamo passato il confine della sesta ed ultima regione, il Lazio. Siamo arrivati nella provincia di destinazione, Viterbo. Ma al momento non sappiamo ancora se arriveremo e quando arriveremo esattamente a Cura di Vetralla. “Certo che ne avete fatta di pubblicità a Cura di Vetralla”, dice Arianna che se ne intende di comunicazione. “Io, come tanta gente non sapevo nemmeno dove fosse”. Giorgio alza gli occhi dalla sua amata macedonia (“Senza melone, mi raccomando, il melone mi fa schifo”) e commenta: “Se è per questo non lo so nemmeno io”.
Mi rendo improvvisamente conto che c’è qualche differenza tra la marcia di Giorgio e quella mia. Entrambe sono fondamentalmente inutili e gratuite al limite dell’insensatezza. Ma io abito a Masetti e sono nato a Cura di Vetralla. Giorgio è nato a Milano, al Pio X ed abita a Milano, in via Zuretti. “Che c’entri tu con la Masetti-Vetralla?” gli chiedo improvvisamente. E lui: “Senti, per farti contento, la prossima settimana ci facciamo la Pio X-via Z|uretti. Mezz’ora e ci siamo tolti il pensiero”.
E’ una battuta ma c’entra il problema. Oggi, sul Foglio, Toni Capuozzo che sta girando l’Italia (in macchina, sia chiaro) per presentare come in una lunga tournée il suo ultimo libro, “Adiòs”, ha scritto che quello che gli piace della nostra avventura è che è senza senso. Ma l’insensatezza della nostra marcetta è maggiore per Giorgio che per me. Strana coincidenza. Toni mi telefona per dirmi che, come successe ad un giornalista tedesco che aveva fatto una cosa del genere, la crisi verrà il giorno dell’arrivo. Il giornalista tedesco non era stato capace di fermarsi e aveva continuato senza soluzione. Noi non crediamo proprio che ci succederà una cosa del genere. Ma quando Toni mi dice: “Sai che dovreste fare l’anno prossimo? Andare da Cura di Vetralla a Salina”. Mi è preso un colpo. Ieri, con Giorgio, avevamo detto la stessa cosa. Solo che noi l’avevamo pensata come la peggiore delle stronzate.


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giovedì 5 luglio 2007

-30bis- MA ALLA FINE APPARVE LUMACA SELVAGGIA

(da Ponticelli ad Allerona Scalo, località Le Prese 33 km oggi per un totale di 580 km alla media di 4,6 km all'ora, ore camminate 125, paesi attraversati Colonnetta, Fabro, Pianlungo)

Quando non conosci un posto, una città, un paese, una via ti capita di poter essere attratto anche solo dal suo nome. Perché suona bene, perché ti piace, perché ne hai sentito parlare o chissà per quale altra motivazione recondita. Forse per questo, stamattina partendo in direzione Allerona Scalo ci sentiamo vogliosi di passare per Ficulle. Ci sembra l’idea migliore, da lì taglieremo ancora una volta l’autostrada A1 e arriveremo alla nostra meta. Giorgio mi fa notare che c’è qualcosa di strano nell’aria: “Ieri siamo passati vicino a Montevenere e in zona c’è anche Fighine, mi sembrano dei posti interessanti”. La caserma, dopo 125 ore di cammino, si sta impossessando di noi. “Come si chiameranno gli abitanti di Ficulle?”, comincio io. “E quelli di Fighine?”, si attacca subito Giorgio. Paolo sostiene che a lui queste cose non interessano più.
Come spesso accade Giorgio comincia a ingolosirsi all’idea di trovare una scorciatoia, un sentiero che ci permetta di arrivare più direttamente alla meta. Mi lascio convincere nonostante io appartenga alla categoria di quelli che odiano le scorciatoie. Decidiamo di rischiare di arrampicarci fino a Fabro per poi buttarci giù in picchiata fino ad Allerona Scalo. Non so perché ma c’è qualcosa di triste in questi paesi con la denominazione “scalo”. Chiusi Scalo, Fabro Scalo, Allerona Scalo. Sono paesi inventati dal nulla quando fu costruita l’Autostrada del Sole. I titolari veri, Allerona, Chiusi e Fabro, infatti, stanno più su, quasi in collina, con uno sguardo altezzoso nei confronti dell’A1.
E’ una giornata abbastanza calda ma dopo uno dei soliti infiniti rettilinei, un’enorme nuvola ci viene incontro portando refrigerio. Giorgio parla al cielo e lo sento ringraziare la “grigitudine” della nuvola. La sua passione esagerata per il meteo non lo abbandona mai. Io per amore della polemica gli ricordo tutte le volte che il meteo ci ha dato delle sòle. Paolo sostiene che a lui queste cose non interessano più.
All’altezza dell’uscita dell’autostrada A1 c’è un ristorante all’interno di un finto castello ma sull’uscio c’è un vero cuoco che mostra di approvare la nostra scelta di passare per Fabro e prendere il sentiero per Allerona Scalo: “Da qui, un’ora e un quarto”, sentenzia con la sicurezza di uno che la sa lunga. “Salite per Fabbro e una volta arrivati al conservone prendete il sentiero”, ci dice salutandoci. Ci arrampichiamo verso Fabro, manco a dirlo all’ora di pranzo, incontrando prima la casa del pellegrino eppoi via Roma che in qualche modo ci dà la sensazione di camminare sulla strada giusta. Sarà il caldo o la stanchezza ma quando entriamo in Fabro sento Giorgio bofonchiare: “Sembra un paesino della Provenza”. Prima che parta il dibattito troviamo una splendida fontanella, senza perdere tempo immergo la testa completamente sottacqua. Un’ora dopo le indicazioni del cuoco, Giorgio importuna una ragazza affacciata alla finestra e riesce a strapparle la notizia che il sentiero è ad un passo. Soprattutto sostiene che per Allerona Scalo ci sono 18 chilometri, per noi in pratica quattro ore. Penso subito che uno dei due, o la ragazza alla finestra o il cuoco del finto castello, è fuori di testa. La realtà è che l’ennesima prova che la distanza percepita dalle persone che incontriamo è molto diversa dalla distanza reale. Ma su questo dovremo tornare a parlare. La ragazza della finestra comunque concorda col cuoco del finto castello: il sentiero parte dopo il conservone.
Ingolositi dall’idea del sentiero non ci dilunghiamo a chiedere informazioni su cosa sia questo benedetto conservone. Comunque non lo troveremo mai. Troveremo invece il sentiero, bello, bianco, con la ghiaia che mi entra nei sandali da tutte le parti. Fa caldo e ci vogliamo fermare da qualche parte a mangiare, possibilmente all’ombra. L’ombra non c’è, la cerchiamo ma non si trova, osterie nemmeno a parlarne. Siamo sul crinale. Un deserto di crinale circondato da calanchi. All’improvviso incontriamo una casa diroccata. Come avvoltoi vedo Giorgio e Paolo che la ispezionano cercando anche un piccolo antro per sostare ma tornano delusi e preoccupati. “C’è il rischio che crolli”, dice Paolo. Io rispondo: “No, guarda, sto ancora bene, ce la faccio”. Ma lui si riferiva alla casa. Proseguiamo e ad un certo punto crediamo di avere le visioni. Davanti a noi la strada si restringe e vediamo due case, fuori da una pende addirittura un’insegna. “Un bar”, urla Giorgio, “un ristorante”, sospira Paolo. “Lumaca selvaggia” dice l’insegna, è tutto chiuso, come al solito, ci sono dei tavolini e un ombrellone, anche lui chiuso. E’ fatta, anche oggi mangiamo in un bar, ristorante o cos’altro sia questo posto, in ogni modo chiuso. Per sicurezza iniziamo a bussare alle porte, a suonare il campanello e ad urlare il sempreverde “c’è qualcuno?”. Siamo indemoniati. Dopo qualche minuto esce un uomo. Lui è stranito nel vederci, noi di più. E’ a torso nudo, con i pantaloni del pigiama arrotolati in vita e ci dice: “Questo è un b&b”. Intende un bed and breakfast, vedo Giorgio irritarsi per la risposta un po’ sostenuta, poi la trattativa si scioglie e ci invita a salire sulla sua veranda. Ci offre birra, Ace della Coop, ombra, un tavolo, delle sedie, delle prese per computer e telefonini e del vino che vende. Maurizio è un’ultraquarantenne, è rosso di capelli, che porta raccolti in un codino, è di Brescia e da 10 anni vive qui, sperduto nel nulla perché così “posso gestire i miei ritmi”. In breve capiamo che è dei nostri. Ecco un altro degli innamoramenti immediati. Se non fosse per gli insopportabili moscerini che popolano la zona ci fermeremmo da lui a dormire facendo saltare i nostri progetti. Maurizio ci racconta che abbiamo appena fatto un sentiero dove gli etruschi avevano costruito una statua di Giano bifronte, che lui ama particolarmente gli umbri, che in questa zona c’è qualcosa di magico e certe mattine senti l’aria positiva e in certe altre quella negativa, che non va più a votare, che non legge i giornali, che per ammazzare le galline fa venire sua mamma da Brescia, che l’acqua la va a prendere a San Casciano dei Bagni e che quella di Fabro che a noi era sembrata così buona invece per lui non lo è.
Sono ormai le cinque quando salutiamo Maurizio, lui ci mostra le sue tre stanze che affitta, molto belle e con il tocco di femminilità di sua moglie. E’ in una posizione strategica: “In un’ora sei a Roma”, ci dice sapendo che per noi ci sono invece ancora almeno tre giorni di viaggio. Il saluto è sofferto, di quelli che continui a girarti a fare ciao con la mano, ci scambiamo i numeri di telefono e ci segniamo il suo sito, www.lumacaselvaggia.it.
Anche oggi, nonostante siamo nella terra degli agriturismo, è dura trovarne uno. Alla fine andiamo verso il podere Sant’Antonio. Stefano il padrone, al telefono, ci vuole dare un appartamento con tre letti, poi Giorgio gli spiega che paghiamo un appartamento a testa e dopo lunga trattativa, anche se gli sembra incredibile, alla fine Stefano accetta. Con una precisazione, non c’è da mangiare. Allora come un gruppo di studenti con i genitori in vacanza ci lanciamo dentro una Coop per fare la spesa per la cena. “Mangiamo in casa”, urlo felice non so perché. Riempiamo tre sacchi della spesa come per un cenone di Capodanno pensando che l’agriturismo sia vicino e soprattutto si arrivi senza un’ascesa degna di nota.
Invece la salita finale è interminabile, sono ormai le nove, sta diventando buio, la strada è sterrata. Giorgio scappa avanti, come tutte le volte che muore dalla stanchezza ma vede il traguardo vicino. Paolo ed io rimaniamo indietro. Non lo vediamo più, al punto che dobbiamo telefonargli per sapere che strada prendere. Mi sembra infinita, quando arriviamo in cima parte la discussione sulla lunghezza della salita, Giorgio dice 250 metri, io sostengo due chilometri, Stefano il proprietario dell’agriturismo dice 500 metri. Paolo sostiene che a lui queste cose non interessano più.
Scopro con felicità che c’è una fantastica piscina e preso dall’ultimo moto d’energia della giornata prendo una piccola rincorsa e mi ci butto dentro. Non mi accorgo però in quel punto l’acqua è bassa. Sono vivo per miracolo. Alzo gli occhi e vedo Giorgio che dalla finestra della sua camera scuote la testa. Siamo un gruppo e uno deve fare tesoro dell’esperienza dell’altro, avverto Paolo che è meglio entrare con attenzione in piscina e soprattutto dove l’acqua è più alta.
Oggi siamo talmente stanchi che non prendiamo nemmeno in considerazione l’idea di metterci a scrivere il racconto della giornata, anche stasera pensiamo che domani potremmo fermarci un giorno se non recuperiamo la stanchezza dei 33 chilometri. Ceniamo nella stanza di Paolo come una vera famigliola tedesca in vacanza. Pasta con il gorgonzola, costoletta di maiale, insalata mista e birra.


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mercoledì 4 luglio 2007

-29 bis- UN MILIONE DI PASSI PER UNO

(da Tre Berte di Montepulciano a Ponticelli, 22 km oggi per un totale di 547 km alla media di 4,6 km all'ora, ore camminate 118, paesi attraversati Montallese, Giovancorso, Chiusi)

Lattine di Coca Cola, bottiglie di birra, pacchetti vuoti di Marlboro e Ms, cicche, Fanta, Gatorade, scatole di Daygum, bicchieri di Estathè, un'infinità di bottigliette di plastica di acqua minerale. Tutta roba cotta dal sole, una lunga corsia di monnezza che costeggia le strade italiane senza che alcuno si faccia carico di ramazzarla e portarla in qualche piattaforma ecologica. E così noi possiamo inventarci sociologi e fare un inventario che ci consente di tracciare la mappa dei consumi degli automobilisti italiani e della loro maleducazione. Abbiamo trovato anche una confezione di Viagra, due guanti da pittore, qualche pannolino in attesa di essere biodegradato. Nessun preservativo. Viene da chiedersi che cosa pensino i nostri concittadini quando aprono il finestrino e svuotano le loro linde macchinette. E' vero che sono tutti prodotti usa e getta. Ma dopo averli usati, devono proprio gettarli dove capita?

I bordi delle strade provinciali e statali che stiamo percorrendo sono un letamaio. Quand'è che qualcuno si prenderà la briga di pulirli dai tanti cadaveri di ricci finiti sotto le ruote delle macchine? Abbiamo visto bisce, serpentelli, vipere, rospi, topi. Oggi vediamo anche una piccola volpe, lì, in attesa di decomporsi. Sembra che dorma, poverina. Nessun gatto, nessun cane. Si sono fatti furbi? Oppure per loro la pietà umana prevede che vengano spostati? Fine del pippone socio-ecologico.

Le strade, che una volta erano il regno dei pedoni, oggi sono la proprietà esclusiva delle quattro ruote. Le macchine sfrecciano a pochi centimetri dai nostri gomiti e spesso leggiamo sguardi di fastidio negli occhi degli autisti.Qualche volta ci fanno dei gestacci, spesso ci suonano il clacson per invitarci a spostarci ulteriormente, magari dentro la roggia o dentro il fosso. Siamo una presenza fastidiosa, inopportuna, invadente. E' una legge non scritta: le strade non sono per i pedoni, tantomeno per i viandanti. "Ma quand'è che è avvenuto il cambiamento?", chiedo a Giorgio. "Quand'è che le strade sono state scippate ai camminatori?" Giorgio ci pensa un po', aggrotta le ciglia, sembra cercare nella memoria e poi dice: "Non lo so. Sicuramente io non ero ancora nato ma tu forse sì".

In preda a questi pensieri profondi percorriamo lunghi rettifili che ci portano dalla provincia senese a quella perugina. Passiamo il confine regionale. E' la nostra quinta regione, dopo Trentino Alto Adige, Veneto, Emilia Romagna e Toscana. "Un quarto delle regioni italiane", pensiamo con orgoglio. Il grande tempo libero che abbiamo a disposizione ci spinge a fare fondamentali calcoli. Quante province abbiamo passato? Dieci? Quindici? Quanti passi abbiamo fatto? Più o meno di un milione per uno? Quanti litri di acqua avremo bevuto? 100? 150? Domande senza utilità per risposte che non avremo mai.

Ma oggi è una giornata meditativa. Dopo qualche chilometro ci accorgiamo di essere in una specie di simbolico punto di snodo della mobilità e della comunicazione dell'intera Italia. Siamo sulla statale 326 che procede parallelamente all'Autostrada del sole. Dall'altra parte, a poche centinaia di metri, ben due linee ferroviarie, quella tradizionale e la direttissima Roma-Firenze. Il dominio dell'Alta Velocità e noi, lì in mezzo, a rappresentare la Bassa Velocità, l'Andamento Lento, lo Slow Walking. Ti senti molto "lento", molto "pesante", molto anacronistico e in definitiva anche un poco pirla. In questo metaforico intrigo di doppie velocità noi siamo quelli che non ce la fanno oppure quelli che hanno capito? Quando vediamo le facce degli automobilisti che ci vengono incontro, tesi, la sigaretta fra le labbra, il telefonino all'orecchio, l'occhio fisso sul navigatore non ci sembra di vedere esseri sereni e liberi. Ci sfrecciano accanto, a velocità da galera, con l'espressione preoccupata di chi è perennemente in ritardo all'appuntamento. A quel punto, noi, con tutti i nostri carichi da zaino, con il sudore che ci cola dalla fronte, capiamo di essere sicuramente più leggeri e liberi. Solo gli avvisatori elettronici di velocità di Montallese, che indicano agli automobilisti a quanti chilometri stanno andando, non ci discriminano e ci trattano come una qualunque vettura. Quando gli passiamo davanti indicano correttamente che stiamo andando a 5 km all'ora.

Riflettiamo anche, in questa giornata di trasferimento lontani da paesi e da città, su ciò che abbiamo visto finora. Abbiamo visto pochi poliziotti, tante autoambulanze, nessun incidente, tranne il fornaio di Camaldoli, un discreto numero di carabinieri, nessun prete, e quanto ai pompieri, solo oggi vediamo due autopompe.

Il paesaggio continua a cambiare. Imperversano ancora i girasole che rallegrano la pianura con il loro giallo gioioso, ma improvvisamente, salendo verso Chiusi, esplodono gli ulivi. Abbiamo il tempo di ammirarli, insieme ai pini marittimi e ai cipressi, poiché la salita per Chiusi ci vede più lenti del solito.

La giornata non presenta grandi avventure, se escludiamo la scoperta del minimarket più brutto della Toscana e l'incontro con Domenico che gira su un camioncino vendendo frutta in cassette con su scritto Sabato. Camminiamo tutto il giorno sotto un cielo grigio che promette acqua ma non mantiene. Ce n'è per tenere la mantellina a portata di mano, unica precauzione che si rivelerà esagerata. Dopo 22 km, per la prima volta da quando siamo partiti, ci fermiamo come da programma. Siamo ad una specie di autogrill sotto Citta della Pieve. Dormiremo sopra le pompe di benzina, ma l'albergo Fondovalle non è male, il ristorante, Quo Vadis (roba proprio per noi) di buon livello, il silenzio assicurato. L'albergo oltretutto, ospita spesso attori impegnati nella fiction Carabinieri. La foto della Marcuzzi giganteggia dietro la reception. Ma nessuna Marcuzzi è presente in albergo. A noi, delusi, non resta che salire in camera, versare abbondanti dosi di detersivo finalmente acquistato, e fare un grande bucato, il primo con un vero sapone dopo tanti lavaggi fatti con le piccole confezioni di shampoo-doccia degli alberghi. Riportare a bianco i nostri calzini e le nostre magliette è impresa disperata anche per il sapone di Marsiglia liquido. Ma finalmente abbiamo biancheria igienicamente a posto e che emana un profumo di antico bucato della nonna. Ci chiediamo come mai abbiamo aspettato tanto.

Nelle lunghe ore di cammino sostanzialmente monotono ed anche un po' noioso ci tengono compagnia le telefonate. Franco, il gigante buono di Cura di Vetralla ci annuncia che tornerà. Sebino Dispensa ci chiede perché non continuiamo fino alla Sicilia, Tiziana dice che viene con noi se passiamo per la pianura pontina, Luigi, il ristoratore e lottatore greco romano di Riolo, ci manifesta la sua invidia, Patrizia ci conferma che i girasole in Toscana funzionano al contrario, Antonella di Bologna dice che la nostra maglietta le è arrivata ed è bellissima, Sara, la maestrina di Faenza racconta che ogni giorno stampa queste nostre note e le distribuisce sulla spiaggia di Cervia, Federica sostiene che siamo sempre più sorridenti e che Giorgio sembra sempre più figo, le padovane ci fanno la relazione del loro rientro complicato: Elena ha sbagliato treno, Daniela ha perso il biglietto e ha dovuto pagare la multa. Quelli che perdono qualcosa hanno la mia comprensione. Dall'inizio della marcetta ho perso: le mutande, i calzini, il dentifricio, la patente (due volte), la pendrive, la boccetta di crema di Camaldoli per i piedi, la borsa per fare gli impacchi gelati. Giorgio mi guarda con sufficienza. Tutte le mattine fa il giro della mia stanza per recuperare tutta la roba che abbandono per distrazione. Lui, ha perso solo lo spazzolino da denti, il Pico della Mirandola dei miei stivali.


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martedì 3 luglio 2007

-28 bis- SE CINQUECENTO VI SEMBRANO POCHI

(da Foiano a Tre Berte di Montepulciano, oggi 28 km, per un totale di 525, ore camminate 113, media generale 4,6 km all'ora, paesi attraversati Cortona, Chianacce, Montepulciano, Acquaviva, Salcheto)

La notte protettrice di tutti i tendini infiammati insieme alla decisione di affogare il mio polpaccio in una quantità esagerata di una pomata antinfiammatoria porta buone nuove. La mia gambetta destra è tornata più bella di prima e non mi dà più fastidio. Come un moderno Francesco di Assisi calzo di nuovo i miei sandaletti quattro per quattro pronto per nuove avventure. Partiamo anche oggi tardi, verso le undici, sostenendo l'insostenibile progetto di un arrivo a Chiusi. Sappiamo che non ci arriveremo. Ma è sempre un programma più produttivo rispetto all'idea di ieri di fermarci un giro. Garmin, che in certe circostanze è proprio un amico, dà il meglio di sé e ci fa uscire da Foiano con la stessa disinvoltura con la quale ci aveva fatto attraversare Ferrara. Ci propone impensabili strade sterrate. Obbediamo ciecamente e veniamo premiati. Pochi minuti e siamo fuori da Foiano. Poco dopo ci dà la notizia che abbiamo raggiunto quota 500 km. Ci avesse avvertito prima avremmo comprato una bottiglia di Chinotto per festeggiare.

500 km a piedi. Preso dall'ubriacatura urlo a Giorgio: "E' come da New York a Los Angeles, come da Londra a Madrid, come da Leningrado a Vladivostock". "E' come da Masetti a Foiano", corregge Giorgio che quando è così razionalista è insopportabile. Lo preferisco in versione zen. Zen come Paolo che non reagisce quando, sulla statale 30 delle Chianacce, viene "toccato" dallo specchietto di una macchina guidata con un eccesso di disinvoltura. Prima di questo seccante incontro ravvicinato la macchina sfiora anche me e Giorgio che camminiamo in fila indiana davanti a lui. "E' un segnale che ci manda l'argine. E' offeso perché lo abbiamo abbandonato", dice Giorgio che prima o poi dovrebbe decidersi se credere alla potenza della ragione o arrendersi ai misteri della natura.

Oggi in effetti, di fronte all'idea di continuare a percorrere la linea retta dell'argine del Canale Maestro della Chiana, con esiti alienanti e tutto sommato incerti abbiamo scelto di attorcigliarci attorno all'autostrada del Sole con qualche toccata e fuga sulla direttissima ferroviaria che unisce Roma a Firenze. In un continuo folle alternarsi fra la nostra lentezza e le altrui velocità non ci accorgiamo che anche oggi stiamo sfiorando i trenta km, senza volerlo. Però il paesaggio ci premia. Finalmente le dolci colline senesi. Finalmente, nei tratti lontani dall'A1, i silenzi assoluti. "Se state zitti", dice ad un certo punto Giorgio, rispolverando la sua nota vena poetica esaltata dalla viandantitudine, "si sente il rumore della lancetta dei secondi del mio orologio e il cigolio dello zaino di Paolo". Lo zaino di Paolo è uno dei contenitori di cose più ridicolo che io abbia mai visto. E' piatto e traccagnotto, flaccido quando è vuoto, bolso quando contiene il nostro pranzo. Sembra un Invicta imborghesito e ingrassato, o meglio il nonno di un Invicta, vestito malamente per la festa. Il fatto che cigoli è del tutto normale. Ma lo Swatch di Giorgio è uno dei modelli più scioccanti della fabbrica svizzera. Colorato all'inverosimile, secondo me non può che provenire direttamente dagli scarti della collezione baby. Che la sua lancetta dei secondi abbia la forza di farsi sentire mi sembra del tutto fantasioso. "Il mio Swatch è di una eleganza e di una raffinatezza che tu non puoi nemmeno capire. Lo uso perché i suoi colori che a te non piacciono si accompagnano perfettamente con le mie magliette colorate", dice Giorgio. "Quanto l'hai pagato?" "Cinquanta euro". "Basta così, non ho niente altro da dire". La conversazione potrebbe in realtà andare avanti per chilometri se non incontrassimo un pastore sardo con le sue pecore, il primo gregge da quando siamo partiti. Ci racconta il suo problema, non può fare il pecorino, per motivi incomprensibili a noi. Deve dare tutto il latte alla centrale. Giorgio ne approfitta per chiedere anche a lui, come fa con tutte le persone che incontra, che cosa pensi del Partito Democratico. E' una sua fissa. Lo ha chiesto ai baristi, alle vecchie signore sulla sdraio, agli albergatori, agli edicolanti. Dire che le risposte siano state entusiastiche per il nuovo soggetto politico - come direbbe Bruno Vespa - - sarebbe un po' esagerato. Il pastore sardo svicola sul Partito Democratico e se la piglia con Brodi. "Con Brodi è un disastro", dice il pastore sardo. "Con Berlusconi, almeno, un po' di pane si mangiava". Lasciamo il pastore sardo con le sue pecorelle. Giorgio è colpito dal fatto che Prodi sia sempre indicato da tutti come la causa dei loro mali. A me sembra che sia successo sempre così. "Chi governa non attira quasi mai l'affetto dei cittadini"." E Berlusconi allora?", insiste Giorgio. "Berlusconi ha fatto sognare la gente". E Veltroni? Riuscirà a far sognare la gente? Basteranno i suoi Kennedy, la sua Africa, il suo buonismo, le sue emozioni che non vanno interrotte, il suo stile britannico di uomo che si rimbocca le maniche e parla al cuore della gente? "Per me dovrebbe fare un viaggio a piedi per i paesi italiani come stiamo facendo noi", dice Giorgio. "Sai una cosa?", dico io. "Non credo che lo farà mai".

Fra infiniti campi di girasole, gli unici girasole che io abbia mai visto che se ne fottono del sole al quale anzi volgono maleducatamente le spalle, arriviamo ad Acquaviva, nell'alta provincia senese. Ce l'avevano descritta come il regno degli agriturismo. Pregustiamo le stanze raffinate, il mangiare ricercato, la piscina riposante, l'accoglienza famigliare. Niente di tutto questo. Congiunzioni astrali? Tutto pieno. Tutto. Oppure richieste di almeno tre notti. Ce ne andiamo cornuti e mazziati da Acquaviva. Ci toccano altri cinque km verso Chiusi per trovare ospitalità nell'albergo Tiziana. Concludendo: anche oggi abbiamo fatto 28 km. Mica pochi per quella che doveva essere una tappa facile di tutto riposo.

Mentre scriviamo il diario di bordo Giorgio non riesce a tenere a freno l'ultima battuta della notte: "Ho un sogno. Domani spero proprio di riuscire a mangiare in un bar chiuso a Chiusi".


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lunedì 2 luglio 2007

-27 bis- L'INSOSTENIBILE LUNGHEZZA DELL'ARGINE

(da Arezzo a Foiano della Chiana, 31 km oggi, 497 km in totale, media generale 4,6 km all'ora, 107 ore camminate)

E' la giornata di Leopoldo II, granduca di Toscana dal 1824 al 1859. Siamo ormai nel suo territorio, quello che lui chiamava con affetto "la toscanina". Siamo addirittura in quelle zone, la val di Chiana, che lui bonificò con un colpo di genio, facendo invertire il corso di un canale, il Maestro delle Chiane, che usciva dall'Arno e portava le sue acque nel lago di Montepulciano. Da allora esce dal lago di Montepucliano e sfocia nell'Arno. Corrado, che ci ha accompagnato ieri, quando è venuto a prenderci alla Gravenna per condurci ad Arezzo, ci ha raccontato le storie di queste contrade con molta partecipazione. E' molto orgoglioso di essere un "chianino" e racconta la storia di Leopoldo II quasi parlasse di un suo antenato. Noi percorriamo per tutto il giorno il canale, camminando sull'argine per 20 interminabili km. Abiamo scelto questo percorso convinti di fare una furbata, di risparmiare tempo e fatica e di evitare almeno per un po' macchine, moto e tir. Corrado ci aveva raccontato le sette bellezze. "Io in quel canale da bambino ci andavo a fare il bagno". Quando vediamo il canale in oggetto restiamo sbalorditi. Vediamo un fiumiciattolo con poca e sporca acqua che scorre lentamente, anzi sembra quasi che non scorra per niente, all'interno di un letto molto ampio e profondo che potrebbe contenere un fiume serio. Poca e sporca acqua che frequenti idrovore succhiano, sollevano e spargono tra i filari di pere, mele, uva e nei campi di frumento. A noi sembra quasi che peri e meli accettino quest'acqua di malavoglia, solo perché non possono dire di no. Comunque che ci piaccia o no questa è la Val di Chiana che ci viene incontro. "Ma le mucche, dove stanno?" chiede improvvisamente Giorgio rendendosi conto che non ha ancora visto la materia prima delle famose bistecche chianine che vengono offerte nei ristoranti locali con la stessa insistenza con la quale a Cuba ti tirano dietro l'aragosta. Le mucche, effettivamente, dove sono? Vorremmo chiederlo ma non c'è nessuno a cui chiederlo. L'entusiasmo con il quale avevamo cercato e trovato l'argine, si trasforma alla fine in noia e anche in sofferenza. Camminare per cinque ore sempre diritto e sempre con lo stesso immutabile paesaggio, alla fine ti fa provare nostalgia perfino per l'asfalto che ti scalda le suole. Paolo ci segnala un paio di aironi e qualche fagiano. Incontriamo anche un trattorista e un ciclista in mountain bike. Poco per questo viaggio che ha trovato negli incontri ravvicinati con la gente uno dei momenti più piacevoli. Sull'argine mi scoppia anche di nuovo la tendinite. Io che vado orgoglioso della mancanza di vesciche, il cui merito attribuisco ai miei scarponcini leggeri, vengo tradito proprio da loro? Il mio tendine destro che mi aveva già dato fastidio due giorni fa, si infiamma di nuovo tentando di impedirmi di camminare. Scelgo una soluzione drastica. Via gli scarponi e vai con le birkenstock tecniche che ho usato finora solo come sandali da riposo. La situazione migliora un po' anche se il fondo ghiaioso non aiuta. sassolini che entrano tra suola e pianta del piede costringono a numerose fermate. Facciamo la solita sosta per il collegamento con Barabba, Radio2, e mentre Matteo e la Laura cercano di capire come al solito il perché di tutto questo, mi distraggo e lascio sull'erba il mio prezioso cappello da cacciatore di coccodrilli. Un episodio che può sembrare sciocco e in significante. Ma tornare indietro è vietato dalla nostra religione, e comunque è faticoso, e comunque non so dove ho perso il cappello, e comunque non posso rimanere senza cappello, strumento fondamentale per la sopravvivenza. Paolo si offre generosamente di intraprendere le ricerche. Io lo seguo a distanza per non rendere troppo evidente che sto approfittando di lui. Ho la scusa del tendine, ma il cappello è mio, ed anche i piedi di Paolo non sono poi uno splendore. Per fortuna bastano cento o duecento metri per risolvere la questione. Vedo Paolo chinarsi a terra e rialzarsi sventolando gioiosamente l'oggetto del desiderio. E' come se avesse trovato un pepitone d'oro. Ripartiamo tutti più felici.

Franco ci abbandona. Ha un appuntamento, programmato da giorni con sua moglie che è venuta a prenderlo. Vederlo allontanarsi in direzione opposta alla nostra ci intristisce un po'. Ci rendiamo conto che questa lunga marcetta, una cosa in fondo sciocca e nemmeno tanto importante, ci altera un po' le percezioni. E' così drammatico il fatto che Franco, il gigante di Cura di Vetralla, ci lasci? Beh, sì. Ci abbracciamo come dopo un viaggio di tre mesi, come dopo la conquista di una vetta, come se non dovessimo vederci più. E dopo nemmeno due ore, sempre sull'argine, ce lo vediamo venire incontro insieme a sua moglie che voleva conoscerci e alla sua cagnetta reduce dalla chemioterapia. Non è il solo ritorno. Ritroviamo anche Corrado, il "botolo rognoso" come lo chiamava Giorgio storpiando la definizione che Dante Alighieri aveva dato degli aretini. "Stamattina mi sono alzato e ho riflettuto", dice. "Mi avete fatto percorrere lentamente lo stesso tratto di strada che faccio tutte le mattine velocemente e in pochi minuti. Volevo ringraziarvi ancora". Quale migliore ringraziamento di un gelato per tutti e tre?

Mangiamo per la prima volta sull'erba. Rimpiangiamo perfino i nostri amati bar chiusi. Paolo sfodera panini con prosciutto cotto, birra fredda, pomodori, pesche. Franco ci guarda dall'alto insieme alla moglie, alla cagnolina e a Corrado.

Poi se ne vanno definitivamente e noi riprendiamo la strada sterrata dell'argine che non possiamo abbandonare fin quando non arriveremo al ponte di Brolio dove prenderemo la strada per Foiano dove abbiamo prenotato e dove mi aspetta tutta la mia famiglia in uno scenario di cenone natalizio.

Insomma la valle, finora, non ci è piaciuta. Il dolce paesaggio delle colline toscane non sembra esserci. Di pere e di mele non ne possiamo più. E il grano non riesce a commuoverci. Giorgio dice che solo la visione di una mucca chianina potrebbe risollevargli lo spirito. Ma di mucche nemmeno l'ombra. Di animali purchessia neppure. Nemmeno un pollo, nemmeno una pecora. "Ieri abbiamo incontrato tre struzzi", tento di sdrammatizzare. E poi, improvvisamente, l'argine finisce. Foiano sembra a portata di piede. Quando il Garmin ci dice che fra un km saremo sotto la doccia, la doccia arriva ma è una doccia fredda. La solita salita spezzagambe, un toccasana per il mio tendine e per le vesciche di Paolo. Il bed and breakfast alla fine arriva. Ma molto alla fine. E' molto bello, confortevole e, come direbbe Lapo Elkann, friendly. Si chiama Toscanina del Canapone, in omaggio al celebre Leopoldo II che siccome era un pennolone alto e biondo che girava su un cavallo bianco si era meritato questo soprannome affettuoso dai suoi sudditi, Canapone.

Immergo subito il mio tendine in un grosso catino pieno di ghiaccio. Una terapia d'urto che sembra una tortura e che prosegue con un impacco di gel surgelato. Poi la cena con mia madre, mia sorella, mio cognato, mia zia, mio nipote, la sua fidanzata. Più Alfonsina, la nostra assistente medica a distanza con suo marito. E Lilla, il piccolo cane nero di mia madre, il più petulante cane del mondo. Sono venuti tutti a festeggiarci in anticipo. Qualcosa tipo L'isola dei famosi quando i parenti arrivano in trasmissione a dire: "Siamo fieri di voi". Noi non diamo la soddisfazione che meriterebbe un'accoglienza così festosa. Siamo veramente stanchi. Abbiamo fatto 31 km. Le cifre dicono che tutte le volte che abbiamo superato i trenta km le febbri si sono impadronite su di noi. Non abbiamo né tempo, né voglia, né forza per aggiornare il blog. I lettori capiranno. E se non capiranno, chissenefrega. Nei lettoni leopoldini (quello di Giorgio addirittura con baldacchino) il sonno si abbatte all'istante di noi. Solo il tempo di meditare un attimo sulla possibilità di camminare anche domani. Tutto dipende da come supererà la notte il mio tendine infuocato. Si ventila addirittura l'ipotesi di una giornata di riposo. Un caso raro di sogno preventivo.


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domenica 1 luglio 2007

-26 bis- LO ZEN E L’ARTE DI NON PENSARE CHE SIAMO VICINI A VETRALLA

(da Subbiano ad Arezzo, km 19 per un totale di 466 km, ore camminate 101, alla media di 4,6 km all’ora, paesi attraversati Pontecaliano, Castelnuovo, Borgo a Giovi, Ponte alla Chiassa, Case nuove di Ceciliano)

Dove è nato Michelangelo? A Caprese o a Chiusi della Verna? In una regione come la Toscana dove due paesi confinanti possono litigare per secoli per motivi ben più futili, stabilire il luogo dove la signora Buonarroti ha sgravato mettendo al mondo quello che lei non sapeva ancora essere un genio, è questione vitale. Le autorità di Caprese hanno risolto da tempo la questione fregandosene dei risultati delle ricerche storiche e cambiando il nome della loro cittadina, Caprese Michelangelo. Quelli di Chiusi no. Si accontentano di avere il santuario della Verna e di essere certi che il grande della Pietà è cittadino loro. Noi sfioriamo la diatriba con leggerezza consapevoli che aggiungere le nostre opinioni a quelle già sedimentate potrebbe rinfocolare gli animi e rispolverare antichi rancori sopiti. Ma un pensiero siamo costretti a farlo quando due bivi a pochi km di distanza ci ricordano il fattaccio.
Siamo nella valle dell’Arno. Abbiamo lasciato l’albergo Gravenna quasi di buonora con l’obbiettivo, piuttosto facile, di arrivare ad Arezzo. Io mi sono ormai arreso alla filosofia riduttiva di Giorgio. Piccoli passi. Ma sicuri. Basta con le febbri e con le vesciche. Bando alle follie. Anche se non lo diciamo noi, lo dicono i nostri piedi che hanno macinato allo stato attuale oltre 450 km. Eppoi c’è l’aspetto psicologico. Io “vedo” Cura di Vetralla, la “sento”, la “voglio”. Giorgio mi ricorda che sono questi i momenti in cui “bisogna” essere zen. “Cura di Vetralla non esiste, non devi pensarci, Cura di Vetralla è un non luogo, arriva se non la cerchi, comparirà un giorno, improvvisamente, dietro la curva. Nel frattempo accontentati di sapere che Cura di Vetralla è dentro di te”. “Ma c’è un sistema più pratico per capire se siamo vicini o lontani?” “No, non c’è. Potrai capirlo soltanto guardando intensamente gli occhi della gente che incontreremo”. “Che cosa mi diranno quegli occhi?” “Quegli occhi non si spalancheranno più pieni di incredulità, di stupore e di compassione come succede tutte le volte che diciamo a qualcuno che stiamo andando a Cura di Vetralla a piedi”. A volte Giorgio mi spaventa quando attinge così profondamente alla vecchia saggezza dei maestri orientali.
Morale della favola, si decide per una tappa media. Ci fermeremo ad Arezzo dopo meno di venti km. Corrado è il nuovo marciatore: il gruppo è di nuovo a quota sette. Corrado è di Arezzo e si presenta in versione leggera, dezainato, solo un marsupietto, la maglietta nera con su scritto “Barcollo ma non mollo”. Oggi è il nostro Cicerone. Ci racconta la rava e la fava di questa provincia dalle grandi tradizioni e dai nomi gloriosi, Piero della Francesca, Michelangelo, Mecenate, Amintore Fanfani, Licio Gelli. Ci mostra la sede di Tele Etruria, la televisione che Berlusconi voleva comprare e si beccò il no del proprietario che gli disse: “Io la mia televisione non gliela vendo. Semmai compro la sua”. Quando gli chiedo qualcosa del palio di Siena Corrado mi risponde sprezzante: “Una manifestazione minore, non come il Saracino di Arezzo”.
L’Arno ad un certo punto piega a destra, pochi km prima di Arezzo. La cosa non era sfuggita a Dante Alighieri, attento osservatore della geografia toscana, il quale scrisse che anche l’Arno volgeva il culo ai botoli ringhiosi. Botoli ringhiosi, una definizione che piace agli aretini. Gli ultras del calcio si chiamano proprio “Botoli ringhiosi”. E anche Corrado si sente orgogliosamente botolo ringhioso. Si arrabbia solo quando Giorgio si confonde e lo chiama “Botolo rognoso”. Passiamo Sabbiano e lo scopriamo vuoto e silenzioso. Sotto il municipio ammiriamo lo stemma del paese, una sorta di Giano Bifronte. Giorgio ha deciso di dedicare la giornata al giornalismo di inchiesta. Davanti all’edicola ferma una signora e le chiede che cosa pensa del partito democratico. Ne esce fuori un racconto in cui si parla di soldini, di strade, di luce. Un discorso un po’ caotico di cui è difficile capire il senso. E quando interviene un signore a contraddirla la cosa non serve a chiarire ma anzi. Il signore attacca Soldini e questo ci consente di capire che i soldini della signora non erano danari ma l’ex sindaco democristiano del paese, industriale della scarpa. Ma non capiamo molto di più. I due, essendo toscani, cominciano a litigare come due toscani. E scopriamo che il signore si chiama Bondi. Il caos aumenta visto che il signore è di sinistra. Ne usciamo scappando, lentamente. Inseguiti dall’ultima botta di qualunquismo della soldiniana: “Per me i politici sono tutti uguali”. Procediamo in fila indiana. In testa Giorgio e Elena. Poi Paolo con Daniela. Quindi io e Corrado che mi racconta del suo lavoro, la pubblicità, e delle sue scelte politiche, rifondazione comunista. In coda al gruppo il nostro Maciste, l’ex giocatore di rugby di Cura di Vetralla, che sembra la nostra body guard. In realtà è in fondo in quanto è un po’ in affanno. Muscoli a posto ma pianta dei piedi fumante. L’ex atleta tira fuori la grinta e non si lamenta se non a richiesta ma alla fine della tappa butterà i suoi scarponi e ne comprerà di nuovi.
Prossima fermata, Tullia. Giorgio che di fronte ad una anziano signora perde la testa e che quando fa caldo la perde ancora di più, comincia ad importunarla. Lei è molto spiritosa, sta al gioco, dice che il partito democratico non le serve perché lei è democratica di suo, dice che da quando c’è Prodi sono in aumento la zocca e le tasse e quindi è poi costretta a spiegare che la zocca è la delinquenza, il casino, il disordine che fanno quelli che lei chiama i “comunitari”. Finisce con una distribuzione straordinaria di acqua minerale gasata.
L’acqua minerale gasata è una delle protagoniste di questa nostra traversata dell’Italia. Ne beviamo tantissima. Abbiamo calcolato che ne facciamo fuori anche cinque litri al giorno per uno. Rigorosamente con le bollicine. Io adoro l’acqua gasata, un po’ perché mi sembra il minimo visto che la pago e sarebbe incredibile pagare dell’acqua naturale. Ma durante questa marcia le bollicine fanno anche sembrare l’acqua meno calda di quanto non sia. Il sole, a dir la verità, la scalda oltre ogni limite. Quando mi attacco alla bottiglietta e mi entra l’anidride carbonica bollente in bocca spesso ho la sensazione di bere direttamente da un phon. Chiediamo a Tullia se dobbiamo portare un saluto al papa da parte sua, una cosa che ci hanno chiesto tutte le vecchiette incontrate finora. Ma Tullia, pur essendo democristiana ci libera da questa incombenza. “Non mi piace questo papa”, dice. “E’ tedesco. Io voglio un papa italiano”.
Vediamo ormai i tetti di Arezzo alla fine di un lungo, interminabile e calorico rettifilo. Arezzo ci accoglie con le sue imponenti mura etrusche e con le sue accoglienti scale mobili. Le scale mobili assorbono le ultime deboli energie rimaste per dirimere una inutile questione. Possiamo usare le scale mobili? Giorgio sostiene di no e imbocca con decisione facendo finta che non gli costi fatica le scale normali. Io provo fatica anche a salire sulle scale mobili, tento una penosa giustificazione (“E l’ascensore allora? Perché prendi l’ascensore in albergo e non usi le scale?”) e mi infilo con decisione sul mezzo meccanico. L’albergo è ormai vicino. Dobbiamo solo superare centinaia di bancarelle. Siamo capitati infatti proprio il giorno del mercatino dell’antiquariato, Il tempo di salutare Daniela che va a Roma , dice, “a gettare le basi per il mio futuro” e Elena che se ne torna nel nord-est a vendere supposte, ed è subito doccia. Siamo all’Hotel Continental, l’albergo che ci riserva le stanze più microscopiche da quando siamo partiti. Mentre faccio la doccia mi viene da pensare a Franco, a come farà a fare entrare i suoi 120 chili da rugbista dentro la sua microstanza. Poi a cena, noi soli quattro uomini, abbandonati dalle donne che avevano portato un pizzico di gentilezza e di vitalità nel gruppo maschile maschilista. Ma questa è la dura legge del viandante, andare avanti sempre a prescindere. The march must go on!


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